Nel 1975 Gastone impartì per qualche mese lezioni di piano alla moglie di Pino Zac, il Forattini dell'epoca. Mi ricordo i suoi disegni satirici su Paese Sera: sbeffeggiava ministri e clero, demoni e santi. La striscia più geniale era Kyrie&Leison: un diavoletto che faceva scherzi da prete a un prete. In una vignetta gli ficcava un ritratto di Carlo Marx dentro la bibbia, cosa che provocò la prima risata adulta della mia vita. Sospetto che allora tutto fosse più politico di oggi, più impegnato, ma nel senso più nobile del termine: tutto era serio perché di tutto si poteva ridere. Oggi guai a chi scherza con Dio, a chi fa battute sui vegani, sugli animalisti. Mi viene il sospetto che quando, pur a difesa di un diritto, ci mostriamo intransigenti, lì diventiamo ridicoli. E comunque. Pino Zac accompagnava la moglie, che suonava con buona scioltezza, per quanto ne potessi capire. Un giorno Gastone gli chiese di fare un disegno per me. Lui schizzò un topo che faceva le pernacchie a un gatto, con gli sputi di saliva e le linee cinetiche che davano in maniera stupefacente l'idea del movimento. Giuro: sembrava che quei due animaletti si muovessero, a guardarli con attenzione. Il topo ancheggiava deridendo il rivale e questi atteggiava il muso a uno sdegno maltenuto a freno. Fu uno dei miei primi contatti diretti con gli artisti, che continuarono a frequentare casa mia con discreta frequenza. Avevo solo otto anni e non sapevo di Breznev e dei carri armati, del Watergate e del Vietnam, che stava finendo col suo carico di orrore. E non sapevo di Moro e Berlinguer, di Fanfani e Almirante. Però quel signore gentile, dall'inflessione graziosamente siciliana che fioriva in qualche vocale audace dentro un romanesco non greve e acquisito, non mi sembrava il tipo adatto a portare sulle spalle il peso dello sberleffo. Troppo per bene, troppo educato, troppo poco graffiante. E invece lo era, cavoli se lo era: solo che si camuffava bene. Gastone, trattandomi da adulto, mi fece vedere quel che pubblicava. Non capivo tutto ma quel che capivo mi parve esilarante. Lì imparai che ridere dei potenti è un ottimo sistema per non averne paura, e per dar loro quel che a volte meritano: pernacchie, come il topo irriverente. Finché, dieci anni dopo, scoprii da un trafiletto del Messaggero che Pino Zac era morto. All'improvviso: un infarto e via. Avevo avuto sotto il naso il suo disegno con dedica per tutta la mia infanzia: Gastone lo aveva incorniciato e me lo aveva attaccato in camera. Quella sera, alla luce incandescente del tramonto di agosto, mi parve che il topo non avesse più tanta voglia di pigliar per i fondelli il gatto. E che il gatto si fosse accorto che se non c'è chi ti stuzzica, non c'è nemmeno tanto gusto a fare il prepotente.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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