Gli androni dei palazzi antichi conservano anche d'estate quella frescura muffita che è la loro anima. Anche in pieno agosto, a entrarci è come se improvvisamente il caldo feroce svanisse, e invece di dover aspettare settimane intere per veder passare una stagione, quel salto fosse una questione di secondi, il tempo di varcare una soglia, di superare un gradino. M'innamoravo già da ragazzino di certi atri e cortili, me li andavo a cercare salendo e scendendo le vie tortuose della città, spingevo con forza minuta portoni del Settecento e trovavo così la mia terra di mezzo. Succede ancora oggi che vada per altre faccende e cada nelle fauci della memoria, che come tutti sanno è una bestia graziosa con la bocca sempre spalancata. Ieri per esempio, che rincorrevo un buon dentista come uno appena uscito di galera una donna disponibile, ho attraversato lo stesso confine che negli anni Settanta, dalla mulattiera scabra che è via Franceschi Ferrucci, mi scortava - a mezza strada - fin dentro l'ambulatorio del dottor Marcello Cicogna, il medico di famiglia. Quel limite era appunto un portone massiccio dal chiavistello poderoso, tutto arruzzinito. Il dottor Cicogna è in pensione ma nello stesso posto - a esser onesti sul lato a fronte, come una traduzione - si apre lo studio dello specialista che andavo cercando. La volta è a vela e l'odore che dicevo, di mattoni e intonaci vecchi, si mischia a quello di tini e uva pigiata: qualcuno dei condomini ha mantenuto a cantina il locale al pianterreno. Troppi ricordi qua dentro, e allora ho provato a concentrarmi sulla singolarità, come fa il signor Palomar con un'unica onda dentro il mare immenso. Calvino dice che quell'uomo si fissa su un solo oggetto della grande bottega del mondo per tentare di capirlo intero, dall'inizio alla fine, per contenerlo tutto e non soltanto una sua immagine, non solamente la superficie - come accadrebbe se ne contasse troppi. Non ci riesce, perché ogni oggetto esplode a sua volta in mille parti, mille coriandoli, ed è a sua volta plurare. Allo stesso modo io elimino dall'orizzonte le scale che salgono ai piani nobili, le piante in vaso sotto la luce del finestrone, il lampadario in ferro, il pavimento di cotto, e ho negli occhi una cosa sola: l'orcione panciuto su cui il ceramista disegnò fiori orientali e una tigre del Bengala. Lo osservo a lungo e alla fine scompare perché sul suo conto non ha più nulla da raccontarmi, sparisce perfino dalla foto che scatto, l'ho compreso tutto quanto - o mi sono illuso, come Palomar - non c'è nulla di lui, della sua essenza, che mi sfugga. Questa cosa strana allora è la conoscenza: non la pretesa di afferrare la realtà plurale tutta assieme, ma il pasto di una sola vivanda per volta. E finché non è finita non peschi altro dal frigo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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