Il tempo della prigionia mi trasforma definitivamente in specchio. Così rifletto con più attenzione di quanto abbia mai fatto e in quel Francesco rovesciato leggo certezze che fino a poco tempo fa erano sospetti. Una ha a che fare con la consistenza dell'amore, nientemeno. L'ho capito una volta per tutte stamattina, quel che ne penso, mentre andavo a buttare la plastica nella differenziata. Il centro raccolta l'han messo al culmine della ripetta che porta al condominio dove io e altri eccentrici negazionisti delle comodità cittadine abitiamo selvatici. Il bello è che lì, tra il cassonetto della carta e quello dell'umido, si apre un varco tra due chiome di castagni e riesco a vedere la pianura, e i capannoni industriali, e i fumi serpentini che salgono indolenti dalle ciminiere. Eppoi vedo anche Narni - oh cara - aggrappata alla sua roccia antica, e sembra che mi rimproveri, sembra che dica Fai di tutto per rimandare il ritorno. E invece no, è che non c'è verso, è che certe volte gli ostacoli, le ragioni contrarie, son più forti della volontà. Nello spazio tra quei due alberi si scorge perfino un pezzo della strada maestra: il trattino dove c'è la fermata del bus. Là attorno, fino a quando non è cominciata questa follia hollywoodiana, ho aspettato per cinque anni, tutti i santi giorni, mia figlia che tornava da scuola. Prepara la maturità da casa, ormai, ed è andato al diavolo tutto il mio progetto insano di distacco. L'idea era quella di un evento da vivere assieme: costruito per l'ultima volta che l'avrei vista salire col pulmann, dopo l'ultima lezione dell'ultimo giorno. L'avrei aspettata con un cespo di ciclamini, un tubicino di Ferrero Rocher e un po' di commozione. Lei, più sbrigativa, cinica, avrebbe detto Grazie Fra, e sarebbe stato il suo record del mondo. Stavo preparando la festa, insomma, quando me l'hanno vietata. Così l'ultimo giorno in cui l'ho aspettata al capolinea non ho pensato potesse essere davvero l'ultimo, ed è stato scontroso, ricalcato dai precedenti, tirato via. Devo perfino averle servito un pranzo innocuo, scongelato, che spero non abbia dato l'idea del disamore. Che è il contrario dell'amore, e allora torno da capo. Imprigionato quassù, tra file di cespugli, cinghiali a spasso e accoppiamenti a qualunque ora dei dirimpettai, l'ho inquadrato, quel sentimento becero. L'ho visto nello specchio. Vive del senso di protezione, cura, terrore dei malanni, che uno ha nei confronti di un altro. Forse per non poterne fare a meno, forse per sentimento sincero. Resta il sospetto che le tre parole più impegnative che pronunciamo - Ti voglio bene - siano una forma di esorcismo, di difesa della nostra integrità, incapace di sopportare la privazione. Ma qui comincia la psicanalisi, non è il mio campo da gioco, e allora mi fermo.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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