C'è nella mia giornata un diaframma che la divide esattamente in due metà e che ho ereditato da Gastone: il pisolino pomeridiano. Di primo pomeriggio non ci sono per nessuno, mi assale un'invincibile astenia e svengo su una poltrona, o sul letto di una stanza lontana dal chiasso. Se è inverno mi seppellisco di coltri e sto beato. Se è estate accosto le persiane, metto a corrente - quel filo che c'è - e me la godo, la pennichella, specie di messicano che non sono altro. Otto, dieci minuti, mica una vita: non crediate che poltrisca. Al contrario, tirarla per le lunghe infiacchisce e dopo non ho voglia di fare un tubo. Quella siesta invece mi ritempra, come un bivacco nella prateria, e al risveglio sono un grillo. Dovreste vedermi: bravo chi mi tiene. L'abitudine non la perdo neanche in viaggio, e chi viaggia con me lo trova un vezzo sopportabile, innocuo. Ho pisolato su una strada di Puglia, mentre un'amica guidava scalza, tra gli aranceti, e al risveglio eravamo a un'oasi, una cooperativa di agricoltori che lavorava la terra sottratta alla Sacra Corona. Avreste dovuto sentire che delizia, quei pomodori. E una volta differente ho dormito sulla panca di un traghetto per le Eolie, con la testa sopra le gambe di un'altra donna, più mediterranea, ragazza di tempra vulcanica - non per sbaglio catanese - e dai vestiti colorati, che ricordo bellissimi. E da giovane? Gente, da giovane svenivo sul divano appena tornato da scuola, stramazzavo sul tavolo a tradurre una versione di greco, crollavo in metro, tra Termini e Castro Pretorio - che è una fermata sola, e il percorso dura due minuti, e tutte le volte ero bravo a non cannare l'uscita, che il sonno durava pochi secondi, a comando. Per la storia: andavo a trovare una terza amica, di costumi meno sgargianti della siciliana, epperò più facili, il che a quel tempo non mi dispiaceva. E a parte questo, devo a Gastone, lo confermo, l'abitudine buona e giusta di recuperare le forze per la seconda metà del giorno. Lui rientrava da Roma, mangiava gli spaghetti della sera prima, dopo averli strascinati in padella, e s'appartava cinque minuti a ronfare. Poi cominciava a suonare Bach e quando la musica arrivava in tutte le stanze sapevamo che era tornato in forma. Più che se avesse preso bevande allo zenzero o intrugli energizzanti di mate e vaniglia. E io, che son nipote di tanto zio, non posso che mettere in pratica - tutti i giorni da quarant'anni - il suo savio insegnamento.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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