Come Catullo per Clodia e la passione, anch'io vivo il medesimo paradosso, ma nei confronti dell'estate: l'odio e l'amo, sogno che arrivi e appena arriva la detesto, di modo che non so dirmi mai compiutamente felice. Nella memoria ho salvata - come su un hard disk - quella dell'adolescenza, quando lampeggiava tra le foglie palmate dei giardini pubblici, cantava con l'ugola delle cicale sciantose e squagliava i gelati sulle mani. La città mia si mostrava a colori dopo esser stata grigia, smunta, per tutto l'inverno, s'affestava per l'accoglienza dei forestieri, che tutti sudati venivano a mangiare e a fotografare la bellezza, e poi ripartivano, con l'anima cambiata. Quell'anno che avevo vent'anni presi l'abitudine di leggere a persiane accostate, per non dare adito all'aria infocata. Di tanto in tanto un sussurro di vento - una scoreggia di neonato - s'intrufolava tra le stecche e carezzava tutto, portando un po' di tregua, come una voce di speranza a un prigioniero. Il mondo intero pareva spento, a quell'ora, come adesso per la pandemia. Là, sotto il terrazzo, passava a smentirmi una moto, scoppiava, accelerava matta, e dietro l'eco del motore un gran tratto di silenzio. E poi arrivava la corriera, col suo sbuffo d'asma - e se la faceva tutta in seconda la salita che c'è - carica di contadine stanche, coi polpacci grossi e le canestre vuote. E alla fine, quando già m'ero addormentato, ecco l'ape del ferrivecchi, fragorosa di metalli rubati in discarica. Per buona sorte, ho poi vissuto estati più vanitose di quella: una in Sicilia - sarà stato il novantatre - rovente come lava, ma più erotica. E un'altra - fiera d'una tenerezza di distacco - a Santa Severa, che era la prima volta che stavo per conto mio, via di casa. Epperò, nonostante tutto questo amore confessato - e la gratitudine per le memorie spinte che m'ha impresso a fuoco - io la odio, l'estate. Mi sfianca, mi ruba la malinconia del crepuscolo, allunga le giornate fino a estenuarmi gli occhi. E non mi fa respirare, talora, incendia l'aria, soffoca le stanze che abito mentre, allucinato, smanio. Quando non ne posso più penso alla mia faccia, che sfila abbronzata per la spiaggia di Senigallia le sere che impunito vado a farmi guardare: è lì che ricomincio ad amarla senza condizioni.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post