Chi è che sta cercando? Lì non ci abita più nessuno da cinque anni almeno. La signora ingrembiulata che si affaccia dal secondo piano ce l'ha con me, che sto davanti a una delle case della mia infanzia. Sì lo so - rispondo, - è solo che mi è presa una botta di nostalgia. Mi guarda sospettosa, forse teme che sia un ladro. Alla fine si convince, magari mi ha visto girare là attorno quand'ero ragazzo, mi fa Ah, in tal caso va bene e si ritira. Resto in cima a quella rampa di scale che sta davanti a una fabbrica dove han scoperto in ritardo che c'erano discrete quantità di amianto. Chi abitava là dentro non ne ha avuto danno: il più giovane se n'è andato che aveva novant'anni. Erano dei miei zii, zii di mia madre in realtà ma era come se fossero di primo grado, tanto li trovavo affettuosi. Parlo di via della Doga, a Narni Scalo, nei pressi del santuario della Madonna del Ponte - lo chiamano così per via che sopra alla chiesa c'è il ponte di Augusto, di epoca romana. A settembre era il momento più bello: la festa mariana e i banchi di frutta secca, la razzia che mia nonna e le sue sorelle facevano di arachidi, semi di zucca e castagne dure che spaccavano i denti era tradizione ostinata. Poi sparpagliavano tutto sul tavolo della cucina, con gesti da croupier, e passavano il pomeriggio a sgranocchiare e raccontarsi storie di famiglia, a decidere chi andava al cimitero la settimana entrante a portare i fiori ai morti. In quella casa organizzarono compleanni e qualche altra ricorrenza lieta allegrandola di pranzi cui ho avuto la fortuna di partecipare, ed eravamo in dieci, in venti, e c'era un sospetto di felicità, ogni volta, che restava addosso nei giorni futuri. Adesso, a pensare che è vuota, e le stanze sono spoglie, e i mobili saranno altrove, e le mattonelle son rigate da scarpe che chissà che fine han fatto, e le voci sono le ultime cose ad essersi spente - perché le voci sono come fiamme, ci mettono un po' ma alla fine muoiono - viene un po' di magone. Ho appoggiato l'orecchio alla porta e mi hanno smentito, Rico, Silena e Bruna: parlottavano ancora, aspettavano i nipoti e decidevano il menù di Pasquetta. A quel punto, più leggero e come sempre grato ai miei cari fantasmi, sono tornato a vivere il presente.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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