L'amore e le migrazioni hanno in comune una cosa: ci pensavo oggi a Piediluco, mentre cercavo una panchina al sole e tentavo di sfuggire al contagio, allontanandomi dagli esseri umani. La cosa in comune è l'accoglienza, io credo. Amiamo chi ci accoglie così come sbarchiamo dove ci vogliono: a ben guardare non c'è tanta differenza. Io ho amato assai chi ha accolto la mia vita, il mio passato, i miei rituali, l'indecifrabile ironia, la nostalgia furibonda, la paura delle rondini - e neanche un po' chi si è soltanto innamorata della mia faccia. Allo stesso modo ho accolto - di chi ho amato - proprietà simili e contrarie, puntigliosità cervellotiche che son diventate abitudini perfino sopportabili, col tempo. L'amore insomma è prendere tutto il pacchetto (anima, corpo e frattaglie - a dirla con Totò) e alla fine intuire che di meglio in circolazione non troverai. Magari ci vuole un po' di rodaggio, c'è un costo variabile di scazzi e furori repressi da pagare, ma il risultato val bene la pena. Accoglienza, quindi, due vite che diventano una, io migro verso te e tu verso me, e ci troviamo a metà strada, e siamo tutti e due allo stesso tempo rifugiati e porto sicuro, e per prima cosa proviamo a capirci ma parliamo due lingue diverse, ci si scopre a gesti, e quando non ci riusciamo, quando stiamo per scoppiare, vorremmo che l'altro riprendesse il mare. A quel punto bisogna tener duro, sfasciare tutto è un attimo. C'è un crinale su cui si comincia a camminare insieme - appena l'orizzonte si fa annuvolato - sottile e tagliente come una lama. Basta un niente a straziarsi, una disattenzione: perdere l'equilibrio e precipitare è un attimo. Lì il lavoro si fa spaventosamente complicato, e per quanto mi riguarda ha dato i risultati migliori quando ho giocato in sottrazione, smorzato, disinnescato. Le contese, se non sono per una questione di vita o di morte, vanno lasciate al loro destino, dimenticate. E se lo si fa in due, cedendo in orgoglio un poco per uno, è tutto di guadagnato. Per tutto questo, ammetto di aver amato visceralmente dopo essere stato accolto, dopo aver capito che in quel tal porto avrei potuto sbarcare tutta la mia ciurma di difetti e sentimenti, e manie sciroccate. Non prima. Prima era infatuazione, desiderio. Cose sciocche, così. Per stare assieme come dio comanda ci vuole che la porta resti aperta, allora, specie all'inizio. E poi serve l'arredamento adatto, a quella casa con quella porta. Provo a dire quattro suppellettili di base: fiducia, fedeltà, devozione, dedizione. Tutto mobilio che non si trova all'ingrosso. Ma se ce la si fa, a mettere insieme il miracolo, vien fuori come un vicolo di lago celeste e infiorato, tutto lindo, che è bello da guardare, te lo invidiano e tutte le stagioni che ci passi dentro hanno lo stesso tepore di primavera.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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