Anni fa, alla fine di una lezione impegnativa per me e per la classe, un ragazzo si avvicinò titubante alla cattedra e chiese il mio aiuto. Disse che le cose che raccontavo erano tentazioni ma che non riusciva ad assecondarle, combatteva anzi per tenerle lontane da sé, le trattava con distacco. Quando gli domandai di che diavolo avesse paura mi rispose: del cambiamento. Temeva cioè che superando i suoi punti di riferimento - le sue canzoni basiche, le trasgressioni obbligatorie della giovinezza, la repulsione per i libri - potesse perdere le coordinate della vita, come abbandonarsi al mare aperto. Lì, nel porticciolo delle cose consuete, si sentiva a suo agio, protetto, e aveva attorno la claque degli amici a dargli man forte, che tutti avevano lo stesso vizio. Un vizio? - mi domandò. Certo che sì: - gli risposi brutale - è un vizio star fermi per paura che muoversi implichi fatica, e impegno supplementare. Lì si risolse ad ammettere che era proprio a quel tipo di cambiamento che alludeva, e che pur temendolo si aspettava da me qualche dritta per affrontarlo senza troppi danni, in modo che poi quelle storie che mi sentiva raccontare smettessero di complicargli la vita. Non voglio che mi si complichi la vita - ammise in effetti e io, con una ferocia che non mi appartiene, gli spiegai a scapicollo che il bello dell'avventura umana è proprio la complicazione, che nelle complicazioni troviamo soddisfazione e piacere, che l'annodarsi dei sentimenti, delle ambizioni, dei progetti, non è un danno ma un'occasione. Ci aiuta a evolverci, nientemeno - conclusi. Nei mesi che seguirono combattè la sua pigrizia e prese a leggere tre quattro pagine di certi romanzi che io trovo monumentali, così, senza ordine, a spizzichìo, e confuse Bazarov con Raskolnikov, John Silver con Achab, e nella sua testa si mescolò e centrifugò tutto quel gran mondo immaginato dai narratori. Verso la fine dell'anno la madre chiese di parlare con me, e con una compostezza straziante mi disse che il figlio stava morendo. Aveva una disfunzione cardiaca congenita, i medici le avevano detto che difficilmente sarebbe diventato maggiorenne. Lui seguiva scrupolosamente tutte le cure e i controlli, sapeva di essere a breve termine, ma ciononostante volle capire cosa ci trovassimo, io e quelli come me, nelle farneticazioni degli artisti. Se ne andò nel sonno, l'estate era appena cominciata, partivamo un po' tutti per le vacanze. Sua madre mi telefonò che ero in un ristorante sulla spiaggia di Fano, in una sera maestosa, quelle in cui ti senti immortale. Me lo disse e la vidi piangere - ma fu una fantasia: le parole che disse erano intere, sobrie. Mi ringraziò per il nulla che avevo fatto: Aveva cominciato a leggere un sacco di libri - aggiunse. Presi il primo treno e andai al funerale, la mattina dopo.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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