L'ho sorpreso a leggere La volpe e le camelie, il ragazzo che mi è entrato in casa: aveva negli occhi i miei occhi di un tempo, quella speranza triste, la stessa fiducia nell'avvenire, l'inclinazione alla malinconia ancora in potenza, il coraggio di tener testa a suo padre. Mi aspettava, io credo, e ha fatto il gesto che mi avvicinassi dalla medesima poltrona su cui le mattine d'inverno di mille anni fa ripassavo il piuccheperfetto e il concilio di Trento, prima del bus delle sette e venti sulla piazza fosca, ammantellata di freddo. Ha trovato uno spiraglio, ci scommetto - il portoncino del locale caldaia socchiuso - e si è infilato già che tutti dormivamo, e non gli è parso vero di sentirsi padrone: della notte stellata e delle stanze. Lo so che è tornato per restare poco, giusto quel che gli serve perché io lo riconosca, e lo rassicuri. Son rimasto in piedi di fronte a lui, vecchio e costernato. Ha preso a chiedermi come sarebbe andata tutta la faccenda, non solo quell'anno al ginnasio e i successivi, ma proprio tutto: chi avrebbe amato, chi avrebbe detestato, quali case avrebbe abitato e quali malattie. Ma visto che sei ancora in buono stato e che avrai cinquant'anni - ha aggiunto per scherzo, - nessuna mortale, vedo. Gli ho risposto che no, nessuna mortale, ma l'ho detto tradendo una pena e si è incupito. E il dolore? Quello possente? Mi sarà risparmiato? - ha insistito. Sul tavolo di noce, accanto al samovar, c'erano copie del Radio Corriere tutte uguali, in copertina Enzo Tortora: chissà chi ha comprato tre volte lo stesso numero. La caraffa di vetro sul piano dell'angoliera ce la piazzò Gastone invece, e Clara ci teneva le pepite al rabarbaro, e Gino i boeri che vinceva alla riffa della drogheria. Il ragazzo sembrava intenerito, a contemplare tutte quelle macerie, e si dimenticò, e tutte le domande gli restarono in bocca, e ricominciò a leggere Silone, e smise di darmi confidenza. Volevo dirgli di non innamorarsi di Silvia a quel modo estremo, che non sarebbe durata; e che poteva capitare che gli nascesse una figlia, e che avrebbe voluto chiamarla allo stesso modo ma poi avrebbe nascosto la tenerezza sotto un altro nome, e Silvia fu il secondo perché il secondo nome di una figlia è il più prezioso, per chi la battezza, è un mistero. E che avrebbe abitato giorni in cui potevano sparargli in petto: non gli avrebbe fatto niente, tanto si sentiva felice. Avrei voluto dirgli tutto quello che ricordavo, una cascata di parole per confonderlo, saziarlo. Ma mi son convinto che fosse un ladro - alla fine, prima di andare via - e che si stesse prendendo gioco di me. Così sono rimasto muto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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