Stamattina a scuola raccontavo la differenza tra il viaggio di Ulisse e quello di Enea e ho specificato che non è solo letteratura ma che tutti facciamo gli stessi viaggi di quei due un sacco di volte nella vita. Okay, a voi che siete giovani è toccato di meno, ma vi capiterà, e allora mi darete ragione - ho aggiunto. Dopo, per la strada, già che organizzavo mentalmente pranzo e cena per la creatura, ho camminato nella mia testa matta fino a qualche giorno fa - venerdì l'altro - che tornavo a casa proprio come Ulisse veleggia (con estrema calma e divagando) verso Itaca, mentre l'andata era uguale alla fuga di Enea che salta in braccio all'ignoto. Rientravo da Perugia, dove un chirurgo frettoloso, senza neanche sedersi, aveva diagnosticato che la ciste all'altezza del mio polso sinistro - la cui natura temevo più del parmigiano sugli spaghetti alle vongole - è in realtà rizoartrosi. Alleluja. Un guaio che capita agli scrittori - poi dice che uno non si vanta - e ai maniaci del flipper, ma dei due dispregi ho solo il primo e allora il dubbio è morto lì. Resta il fatto che la mattina avevo una fifa blu, la stessa - fatte le proporzioni - dell'eroe virgiliano a navigare a vista senza esser certo della salvezza né di uno straccio di futuro, e a mezzogiorno, sulla stesso asfalto ma per il verso contrario, un'allegria da scampato pericolo, che all'altezza di Todi si è fatta dolce strafottenza. Là, grosso modo a metà del viaggio, per festeggiare - e per il gusto del divagare d'avventura, omerico che non sono altro - ho infilato l'uscita di Monte Castello, mangiando poi da vincitore in una trattoria tra campi e fienili. Andata e ritorno, apprensione e sollievo: non è così la nostra vita? Continuamente e ostinatamente, così. Non so se qualche esegeta ha mai intuito che Ulisse ed Enea han caratteri opposti - uno figlio di buona donna, l'altro morigerato e sobrio - perché rappresentano due precise identità dell'uomo, due sentimenti, perfino due filosofie. La paura dell'ignoto diventa per esempio la paura di una diagnosi malefica, e allora ragioni come Enea: preghi tutti i santi in circolazione, giuri che smetterai con le oscenità e speri di sfangarla. Allo stesso modo, quando ti han detto che non morirai a breve, fai come Ulisse: il gradasso, l'architetto di imbrogli. Ritratti uno per uno tutti i buoni propositi, confessi a te stesso Scherzavo. In quella trattoria invasa dal sole pulito di gennaio non c'erano sirene, né giganti con un occhio solo, e non si vede neanche il mare. Ma ho incontrato le mie debolezze, tutte schierate, tutte disposte al perdono. E mi son fermato a brindare con loro.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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