Sapete quegli amici che si incontrano ogni tanto, che non ricordi il volto, vaghi, indefiniti, e non capisci se il tempo che è passato li ha risparmiati, o ha infierito? Ecco, oggi ho ritrovato uno di loro. A sua volta, ha fatto fatica a riconoscermi, Non perché sei cambiato così tanto - ha detto - ma perché i miei occhi si sono sciupati, a furia di guardare. Cos'hai guardato di così accecante?, gli ho chiesto sciocco, e lui Mia moglie. Ma è andata via: con un uomo cui vuol bene più che a me. Lì avrei voluto, con una scusa in saldo, una bugia pescata su Amazon, scappare, scomparire, o esser morto da un mese e aver reso inconsolabile chi mi ama sui manifesti, o volato in Argentina assieme gli italiani che laggiù han piantato radici, e adesso i figli parlano con le consonanti blese, come Javier Zanetti. Ma lui non se n'è offeso, e ha insistito per pagarmi il caffè. C'è un bistrot in via Armellini dove vendono anche il pane - che razza di locale eccentrico - e si presta agli incontri brevi: il tempo giusto per chi non si vede da una vita. Al banco, in cambio del caffè, ha preteso una speranza. Io credo che raccontare la speranza sia un lavoro da narratori - ha precisato - e tu lo sei, e non sei l'ultimo della lista, questo è certo. Ho intuito dagli occhi imploranti cosa cercasse, assieme alla speranza: una fantasia, e l'ho imbastita meglio che ho potuto, e gliel'ho misurata addosso, al modo di un sarto, al modo di Daniel Day-Lewis in quel film monumentale. Gli ho detto Immagina, e lui Cosa? Tu immagina - insistevo. Fai il gesto, il cosa viene dopo. Ha provato a concentrarsi, nonostante lo sbuffo della macchina e il rotolar dei grani nel fornello, il viavai dei camerieri. Le segretarie degli avvocati sostavano leggiadre: dio benedica le donne per la grazia che fanno attorno, certe volte. A quel punto gli ho iniettato l'invenzione migliore che su due piedi potessi architettare, il mio record del mondo di improvvisazione. Si è divertito, ha riso, ha chiesto spiegazioni su un passaggio o due, che incespicavano un poco. Alla fine si è anche commosso, mi ha stretto la mano, è andato via. Che razza di faccenda! - ha esclamato sulla porta. Peccato che non ve la possa raccontare: è soltanto sua, è un regalo. Ho promesso che non l'avrei divulgata. E perciò non mi resta che salutare.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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