Sarei tentato di dirmi felice, a stare un giorno intero dentro un chiosco da giostrai. Uno di quei bussolotti che montano davanti agli autoscontro, chiuso dal di dentro, a far pagare i biglietti alla gente che pur in fila al freddo è allegra, perché porta i figli a divertirsi. Mi accorgerei felice perché starei al riparo dal mondo epperò allo stesso tempo sua parte, cisti benigna che ha scoperto come non far del male a nessuno e non riceverne. Fuori il tempo si muove, gli amanti passano svelti coi baveri alzati, le vedove incappottano i cani e gli danno nomi umani, tanto che chi ha lo stesso battesimo si volta, pensando che lo stanno a chiamare. Certi motori tagliano incuranti per la ztl, il mio amico Jalenti vende i dischi di Bublè, li confeziona nei pacchetti rossi, ha un consiglio saggio per tutti quelli che non sanno che regalare ai figli, a parte la giostra. Non lo meriterebbero, quel consiglio: chi non sa cosa regalare ai figli non dovrebbe farne. Di tanto in tanto passa un mio ex allievo, strabuzza gli occhi a vedermi in quel bugigattolo, io apro le mani a dire Bisogna pur arrotondare, lui ride e cammina via. Quando arriva la sera, con lei arrivano i gendarmi: sembrano usciti da quella canzone di Faber, solo vestiti più moderni, e controllano lo spaccio. Che non ci sia, voglio dire. Fanno la ronda anche certi avvocati assieme a certe segretarie coi cappellini tipo Lauren Bacall, che girano attorno alla piazza calpestandone il perimetro, e finiscono per sedersi in due, in tre, a quel bar dove il maitre ha fatto piazzare i teloni di plastica. Poco in fondo c'è Kasanova, che vende oggetti di Natale dalla nostalgia incorporata: il sette di gennaio già li riporremo, e tra un anno ci verremo a patti, con quella tenerezza. Io non ci vado per via della kappa: quando si decideranno a rinsavire farò là i miei acquisti, perché ha cose belle. Alle otto mi vien voglia di un hot dog, annuncio col microfonino che i giri son sospesi per qualche minuto e mi avventuro fuori, nella notte venefica della città, dove il buio odora di scarichi industriali più della luce. Incontro altre facce solite, una cara amica mi ferma e mi chiede di cosa parlerò domani in radio; da un'altra so di un nostro vecchio prof che è morto la vigilia di Natale, ma dell'anno scorso, e per un anno l'ho creduto ancora vivo. Infine, dentro una salsamenteria, vedo uno più felice di me. Sta alla cassa, ma tra lui e la strada c'è una vetrina antiproiettile, e tra lui e la clientela un bancone che lo tiene lontano, riparato, salvo. Così a volte io mi sogno: egregio. Come quel tale o come l'altro me incapsulato in una biglietteria. Alla giusta distanza da tutto e al centro di ogni combattimento.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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