C'è un lavatoio, tra Vasciano e il cucuzzolo di Itieli, - definito audacemente fontanile sui cartelli stradali - al quale son salito ieri, di primo pomeriggio, a cercare pace e silenzio: hai visto mai fossero piovuti giù dallo speco francescano, che sta a picco proprio là sopra. Tirava una tramontana gelida da altri colli, ostinata a intrufolarsi tra le gole e a legare la gente contadina dentro alle case, a capare l'uvetta per il torcolo. A un certo punto ho alzato gli occhi sopra il dorso di una mucca e l'ho visto: il cielo in fiamme. Stava sospeso sopra la valle industriale, trattenendosi solo per i miei occhi, neanche fossi James Bond. Aspettava che lo guardassi, giuro, stava lì a fremere perché moriva dalla voglia di tramontare ma non prima che me ne fossi accorto, di quanto era magnifico. L'ho contemplato cinque minuti e alla fine è andato via, tutto contento. E a quel punto mi ha preso l'allegria - e mi prende di rado, credetemi, e perciò quando succede è una benedizione. L'allegria per tutte le volte che riesco a gustare quegli stessi cinque minuti di grazia in un giorno che ne conta più di mille e quattro. Succede al mare, quando il cameriere chiede gentile se voglio altro vino - e una volta che stava per chiudere è capitato che brindasse con me. Succede al cinema, se la maschera mi suggerisce di provare la poltrona comfort al prezzo di quella normale: E se si è trovato comodo la prossima volta può prenotarla online. E succede dentro ai ricordi, dove Pietro ritorna giovane e mi carezza la testa senza motivo, mentre sto a far colazione con il coccio del Mulino Bianco, e i cinque minuti che seguono sono la felicità perfetta. Io credo che dio abbia un sussulto per ogni nostra felicità improvvisa, perché vuol dire che ci siamo imbattuti in un'intonazione che s'accorda con la sua - polistrumentista maestoso. Al contrario la tristezza ci fa stonati, fuori tempo, allontanati. Una volta al giorno, per questo, mi sforzo di cantarci assieme, di creare le condizioni per entrare nel suo studio di registrazione e duettare in equilibrio sulle sue note ripidissime, le melodie antidiluviane. Alla fine posa il sax, si siede pacioso dietro al mixer e mi fa il gesto del pollice in su. Che fatto da lui è bello quasi - e straziante - come la carezza inspiegabile di mio padre.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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