Metti il dito sopra la capocchia del prospero, e poi sfregala sulla striscia ruvida. C'è il fosforo, piglia fuoco subito, se non c'hai paura di scottarti. Se c'hai paura invece, è quando che ti bruci. Devi fa' una sveltezza. Ecco, Gino le impartiva così, le lezioni di accensione dei fiammiferi. Che di questi tempi, sotto Natale, erano assidue, perché Natale è il fuoco, diceva, è il fuoco più di qualunque altra fantasia. Ora io che ne so quando gli era salita la prescia di credere che il tempo che lui chiamava sotto Natale cominciasse già alla fine di ottobre - presumo negli inverni di guerra, per via che solo dentro le feste si mangiava decentemente. E che ne so pure della mania per le fiamme, dacché non ho mai inteso di casi di piromania in famiglia. Sospetto che gli piacesse sopra ogni altra cosa badare all'arrosto infilato nel ferro, e prima procurare la legna, e riporla in una vasca di cemento ricavata in un andito di casa, al riparo dall'umidità. E gli piaceva perché il compito del fuochista era come quello degli addetti al faro, sopra le scogliere: illuminare la rotta, in modo che tutti la trovassero facilmente, la Betlemme di via della Pigna. Ragazzi, quante ne ho scritte, quante ne ho raccontate, di queste avventure. Così tante che devono esservi venute a noia: nel caso, mi perdonerete. Ma quel tempo è l'epoca del mito - Gino è Prometeo, naturalmente, Pietro è Ettore, Rita è Andromaca, Gastone è Tiresia - e dal mito non ci si separa mai, o è un tradimento. Garantisco: non esiste narratore - pur di umili capacità, tipo il sottoscritto - che non debba fare i conti con l'epica. La propria epica, è chiaro: ognuno ne canta una differente. Che poi all'atto pratico non se ne ricavi gran che è un altro paio di maniche. Non ci si mangia che digiunando sei giorni su sette, con la poetica della memoria, tenetelo a mente nel caso vi prenda la smania di imitarmi. Però arrivano trasalimenti di gratitudine, dai lettori devoti, e emozioni così fonde che abitano l'anima, e non se ne vanno più. Vi sembra poco? È per questo, giuro, che ho preso a comprare scatole di svedesi e minerva per accendere i fornelli e il mio paio di sigarette al mese: per essere certo di aver imparato a non scottarmi. E ritrovarmi il polpastrello annerito è un gioco che non ha paragoni di divertimento, tanto intenerisce.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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