L'ultimo giorno di pioggia - tre o quattro or sono - piove come
se dio non riuscisse a trovare un idraulico - e non è neanche domenica. Gli si è
allagato il bagno, si vede: due dita d'acqua sul pavimento, e le
infiltrazioni precipitano sulle nostre teste, inesorabili. Sto sopra
ponte Allende quando arriva la scarica grossa. Un ombrelluccio a scatto -
con Gatto Silvestro disegnato sulla tela - è tutto ciò che possiedo per
difendermi. Vado a comprare la cena senza dar peso alle previsioni, che
pure sono spietate. A metà del ponte, dove le mie scellerate scarpine
estive fanno ciakcikciak, una ragazza con lo stesso guaio mio mi
viene incontro, e un ombrellino ridicolo, rotto da una parte, con una
stecca puntata contro il cielo - come un dito medio, come un insulto. Il
marciapiede è stretto, su quel passaggio: da una parte il parapetto che
protegge dal salto nel fiume; dall'altra la pista ciclabile, dove
schizzano bici terrorizzate dal nubifragio. Quando siamo a contatto i
nostri ombrelli si incastrano, le stecche si accapigliano e non c'è
verso di districarle. Ci guardiamo innocenti. In capo a qualche secondo
do uno strattone più convinto e mi divincolo. Rido io per primo, lei
risponde ridendo argentina, timida però, pudica, e poi continua a
camminare. Siamo distanti dieci passi, ormai, quando mi allegra la sua
ilarità e a lei - ci scommetto - la mia, ma non ho sentito la sua voce, e
nemmeno lei mi ha visto parlare. Scossi gli ombrelli, sono fradicio per
davvero, adesso, ma mi si è alleggerita l'anima. Uno va in giro sovente
con un'incudine al collo: io ci esco ogni mattina. Cammino per le
strade con questo peso che mi arcua in avanti la schiena, e nessuno lo
vede. Come va? Come stai? Tutto bene? Certo, tutto magnifico. E
così sorrido, e fingo o racconto guai consolati: quelli incurabili li
tengo per me. Poi una sconosciuta, che non si inalbera per un incidente,
che si inzuppa come me e le viene da ridere. Che riprende la sua strada
più leggera pure lei, ci scommetto. In un mondo di animali feroci,
pronti a sbranarsi per una precedenza all'ufficio postale, ho incontrato
una speranza. Nessuna colpa: nessun colpevole. Solo un frangente. E
perfino il raffreddore, dopo, che pizzica il naso, mi sembra un prezzo
onesto da pagare per tanta consolazione.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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