Copriti la testa col lenzuolo, non permettere che l'inverno ti prenda. Disponi le coltri in modo che i piedi non restino scoperti, né le mani: anzi, con le mani fai un risvolto e infilacele dentro, staranno al caldo. Lascia fuori solo il naso, all'inverno piacciono i nasi e devi concedergli un obolo, perché non sia troppo severo. Te lo gelerà solo un poco, ma non te lo farà gocciolare: sa esser gentile, se lo conosco bene. In ogni caso, mettiti un pigiama pesante, e aspetta la primavera. A ogni stagione accorciata, Zaira recitava questa stravaganza - era una zia di Pietro, era vedova, e una volta o due al mese saliva da noi a mangiare gli Oro Saiwa, così com'erano, secchi come una sentenza, dalla scatola che lei stessa si portava dietro da casa. Il passo corto, marziale, il vestito nero in ogni circostanza, le davano una fama paurosa, ai miei occhi, specie quando non c'era, e si annunciava al telefono. Son convinto però che quella storia dell'inverno, capace in fantasia di diventare uno spettro che starnuta, ha cucito uno scampolo della mia stoffa di narratore, povera e artigiana - e ben robusta. E per questo le sono grato. Aggiungeva che il naso fuori dal riparo, infreddolito e annusante mentre il resto del corpo è tiepido, è un piacere non convenzionale, definizione che tocca a certe cose umane che molti credono una seccatura. Plasmabile e fanciullo, presi ad annusare le cose, allora, e a trattenerne in memoria la fragranza; così quando scartavo i pacchetti delle Panini non guardavo mica le foto degli animali, quello dopo. Avvicinavo la pellicola al naso e tiravo su, e mi si infilava così bene quell'odore nelle narici che ancora sta là, e non faccio nessuno sforzo a risentirlo, oggi che sono vecchio. In via Cardoli, a casa di Gino - dico i dettagli, perché mi crediate - c'era una sala che dava sul Suffragio, e una poltrona che profumava ostinatamente di pelle anche dopo anni che era stata comprata. Non era svaporata, sembrava sempre l'avessero messa lì un'ora prima, quelli del mobilificio: i facchini. S'erano arrampicati smadonnando per le scale e l'avevano piazzata sotto al paralume, davanti alla finestra. A me non mi ci facevano sedere, quindi mi ci sedevo appena non mi badavano, e ci montavo in piedi, e ci saltavo sopra. E insomma: l'infanzia andava così, talora. Zaira adesso direbbe che è una benedizione, tutta questa memoria di naso, ci scommetto. Tanto che se mi gira, una volta di queste faccio uno di quei libri per bambini dove grattando una strisciolina si sentono gli odori. Le parole serviranno a poco, a quel punto: giusto una piccola didascalia. Ma la tenerezza sarà se possibile ancora più gigante.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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