A che mi serve studiare? - mi domandò una volta una mia allieva, sveglia e un poco superba, tanto da credere di essere sufficiente a se stessa. - Ho tutte le informazioni che voglio a mia disposizione, in un attimo. Posso essere ignorante e abile nello stesso momento: non ho bisogno della cultura per sapere come comportarmi. L'uscita era talmente enorme che mi affascinò a trovare una risposta che non fosse d'istinto, e le chiesi di pazientare un giorno: l'indomani avrei provato a replicare. Giocava con le provocazioni, quella ragazza: già altre mattine di quel tribolato anno scolastico - con cambi di sede, cattedre scoperte e avvicendamenti di presidi - gettava l'amo e aspettava che io abboccassi. Siccome però sono un vecchio pesciolino scaltro, prima di dargliela vinta provavo sempre a combattere, tanto che vinta non gliela diedi mai. Così quella sera ci rimuginai un poco, su quel che potevo dire: mi serviva qualcosa che fosse mio e basta, una risposta severa e onesta, non presa dai manuali, o dalla bocca di altri. Il giorno seguente, mentre raccontavo Il segreto del bosco vecchio, la sua fiabesca modernità, scantonai per un altro discorso - una deviazione, come prendere un sentiero laterale alla strada maestra per scoprire dove ti porta - e dissi qualcosa come E non crediate che sia sempre vero, quel che pensano tutti. Quello che tutti danno per scontato, non sempre è la verità. Ripetei due volte il concetto, per convincere me stesso, più che i miei ragazzi. La mia aguzzina pubblicò in faccia un sorriso di sfida: capì che ce l'avevo con lei. Pensate al convincimento più diffuso in fatto di libri - continuai, - quello per cui si legge sempre di meno, con le statistiche che ogni anno abbassano la percentuale di chi prende in mano almeno un libro al mese. Ora mi guardavano interessati, e non era così scontato. Quelle statistiche sono probabilmente vere - dissi, - ma sono la conseguenza di un fenomeno, non la causa. Vale a dire che non è che non leggiamo e quindi ci inselvatichiamo ma leggiamo poco anche come conseguenza del tempo, scarso, che abbiamo a disposizione. Aggiunsi che avremmo dovuto imparare a gestirlo meglio, quel tempo, ma anche che avremmo dovuto opporci a una modernità in cui il tempo è il consumo di qualcosa, un obbligo di cose moltiplicate rispetto a quelle di altre generazioni, non il suo godimento. Vorremmo leggere ma non ne abbiamo le forze, talora - misi lì come epitaffio. E come c'entra questo con quel che ho detto io? - osò la mia amica saputella. C'entra quando al tempo non gli dai valore, ma lo usi come mezzo di trasporto tra un'azione e l'altra. Il tempo non è un treno ma una stanza. Ti ci devi fermare, ambientare, devi viverci. La cultura è la stessa cosa. Se pensi che sia come un hamburger da scongelare quando ne hai necessità, ti resta sullo stomaco. Se cucini un piatto come si deve, prelibato, col tempo che ci vuole per farlo venir bene, ti leccherai i baffi e non avrai problemi di digestione.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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