Odora di ferro e salviette rinfrescanti, la donna che incrocio stamattina a metà di via Curio Dentato. Traina un trolley con due dita, saggiamente gravato appena di cose essenziali; le ruotine non stridono, sul marciapiede, fanno anzi un rumore di soffio, uguale ai ferodi del treno ad alta velocità da cui è di certo scesa, bella e consapevole. Come s'appiglia ai miei occhi sorride, abbassando la testa, però non rallenta: anche lei ha una destinazione esatta - mi sa - e non può accumulare ritardo. Spero scappi da un uomo che l'ha maltrattata, e corra da uno che sugli uomini le faccia cambiare opinione. Ha mangiato dei crackers, in viaggio, ci scommetto, la matita della fantasia - oltre il finestrino - a ricalcare le colline al principio dell'autunno, le case cantoniere, i passaggi a livello abbassati, i murales sui palazzi delle periferie. O magari è stata appena in vacanza, solitaria e leggera, cogli amori passati raccolti in un ricordo solo, come fiori di campo in un nodo, e i progetti che l'han fatta sorridere, a guardarli nitidi, una buona volta. Vuole scrivere un libro, cantare in una piazza, recitare a teatro. Cose che non ha mai fatto e che il viaggio, improvvisamente, le ha mostrato possibili. Stare qualche tempo lontano da casa aiuta a guardare il mondo da prospettive nuove, del resto. Così lei, così mi piace immaginarla. Lei che altre città e altre lingue han reso più dolce, ristoranti sul mare e barche di molo han fatto romantica, monete di conio mai visto e gesti per farsi capire han sorpreso curiosa. Ha comprato orecchini da cento kune, e li indossa come fossero smeraldi; e arachidi bagnate col miele in una cioccolateria slovena. Eccola qua, adesso, la vedete? Una persona differente, a differenza di chi non parte mai, e resta tutta la vita nel quartiere in cui è nato a lievitare la rabbia, ed è ostile perché non ha mai visto nessuno che non sia simile a lui, e quando se ne accorge, di quanto sia plurale l'umanità, gli va il sangue alla testa. Partiamo, allora. Appena si può, per ogni latitudine. In macchina, in bici, in aereo. Mettiamo spazio tra l'abitudine che intristisce e l'imprevisto che spalanca l'emozione. Al ritorno saremo più tolleranti, c'è il caso. E la guarigione che non troviamo nei farmaci, in certe bislacche stregonerie, sarà al principio della sua parabola.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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