A stagioni uguali corrispondono desideri somiglianti, pressappoco. Così, appena s'annuncia l'autunno mi viene voglia di vedere Trieste. Non ci sono ancora andato però, e il rimando ogni volta è misterioso e buffo. Un anno è perché abbiam già fatto le vacanze; un altro dipende dalla scuola, che inizia prima; un altro ancora la tentazione è troppo superficiale per sostenere il viaggio. Ho pensato che se la racconto senza averla mai vista, quella città di frontiera, qualcosa magari si smuove. Leggevo il Canzoniere di Saba, la prima volta che mi venne il ghiribizzo di partire. Stavo in via Franceschi Ferrucci, nello studio del dottor Marcello Cicogna ad aspettare il mio turno, ed era naturalmente ottobre. M'imbattei in quella frase che definisce Trieste un ragazzaccio aspro e vorace - tale io mi sentivo allora, e mi ci riconobbi. E poi in quella che ne rivela - contraddittorio - il carattere di scontrosa grazia: allo stesso modo io vedevo Narni, burbera solo agli occhi dei distratti. Il caffè Tergeste è il posto dove adesso mi piazzerei a scrivere finché non mi cacciano, coi suoi tavolini rotondi, le Sacher, i galantuomini con la paglietta beige, le cantanti arrivate in città per un'operetta al Politeama. Lassù a est c'è il mare, e ci sono gli austriaci, e le strade sono pulite, e perfino Zeno Cosini spegneva le sue diecimila ultime sigarette solo nei portacicche; e c'è la Slovenia, a un tiro di schioppo, e la Croazia, terra martoriata e perciò sorella dell'Italia. Dev'essere una città dove è una fortuna vivere, uno nasce in posti così perché quel giorno che succede dio è allegro: Lasciate pure che venga al mondo con un po' di bellezza attorno, dice frivolo ai suoi galoppini. È da suonati raccontare una cosa che non conosci, ma questo fanno i narratori, che credevate? Immaginano. Più esattamente immaginano la vita che vorrebbero vivere, e la ambientano dove gli piacerebbe un botto, e dopo son costretti ad arredare quel palcoscenico con oggetti di scena. Finti, dunque. Magnifici però, perché se si inventa che si inventi con grazia. Del resto io non lo so se Trieste è come me la sogno, o più ordinaria, dimessa. Fino a che non la vedo, fino a che non la cammino, è come tutte le altre città che non ho visto: un romanzo. Una illusione, quindi. E allora è per quello che i narratori viaggiano poco: per non restarci male quando la realtà è più grigia delle loro bizzarrie.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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