Di tutti gli ospiti che vengono e vanno per questa radura sbilenca, che entrano e escono da quegli usci gracchianti, l'unico che non tradisce mai la parola data è lui, il vento. Se lo sentiste come uggiola quando scorta l'autunno e il suo armamentario di giornate corte, foglie arse, malinconie inspiegate e sentori di burrasca. E come sussurra se deve asciugarti i capelli, che agosto è appena al principio; e come scuote le finestre se lasci a corrente, quando ti fa sobbalzare e chiedere allarmato Chi è? Chi è entrato? Non è nessuno, non è mai nessuno, eppure ci speri che un'anima migrabonda ti si sia introdotta in casa, e chieda udienza, perché la ragione degli uomini è troppo elementare per far contenti i narratori. Io il vento l'ho bevuto ovunque, ovunque dissetandomi. C'era - dolce come un vino leggero - su quel promontorio greco ad aspettare una donna che aveva perso la strada; in quella città di Puglia magnifica e avvelenata, nei ventotto giorni da soldato; nelle straducce di Tarquinia al tramonto, un soffio etrusco che allevia la pelle cotta e suggerisce capriole di sesso. E c'era, despota, negli inverni di tabaccheria, ma fuori, ed ero al sicuro dalle raffiche a leggere Buzzati, salvo se un cliente, spalancando la porta, faceva entrare la tormenta. E arrivò quell'altro agosto che telefonarono in radio perché un mio allievo era morto, così, dalla sera alla mattina. Sembrava costernato, volle dire il suo cordoglio, e dopo, mentre a spron battuto correvo dalla madre, cantò una canzone triste. C'era - e vivaddio - quando ho pregato che lo tenesse in quota, il primo aereo che presi; quando ho creduto di essere innamorato ma era una faccenda più umana. E c'è nelle mie notti in bianco e nei miei giorni assopiti, e quando vado a trovare Alessandra, e i fiori nei vasi sono sconvolti e la lapide è coperta di terra. Sta dappertutto e così lo eleggo a condimento di ogni mia narrazione, sto a favore suo e mi lascio ispirare: lui spazza la mente dei presagi maligni e mi dà modo di proseguire il viaggio. Sulle mie vele soffia, dai polmoni capienti, allegro e truffaldino.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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