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In vetta

Mi arrampicavo su per la mia città, da ragazzino, che ha il pregio di essere verticale, come tutte le città in cui è fantastico vivere, perché le cose piatte - i libri insipidi, presempio - appiattiscono la fantasia. Salire e poi guardare tutto da un'alta quota contagia l'intelligenza di intuizioni, invece: cresce la sfrontatezza, calano le paure, i battiti del cuore impazziscono, sembra che ti manchi il fiato - ecco l'infarto! - e invece c'è il caso ne venga fuori un romanzo coi controcavoli. Avevo il vantaggio di vivere a mezza altezza, ai tempi: via della Pigna, cosicché scalare il Monte era già partire a metà strada, come avessi piantato il campo base un pezzo su. Dalle dodici all'una poi era una beatitudine, invettarsi. Dalle case, dalle finestre schiuse, dalle bocche delle taverne, sortivano zaffate di pomidoro bolliti, di zucche abbrustolite, di conigli alla cacciatora unti di sughetti bianchi, e così sapevo che la signora Ruggeri aveva ritirato la pensione, il figlio dei Macomer - sardi trapiantati - era tornato in licenza, il conte Scott vantava una cuoca nuova - più esperta della precedente - e la vedova giovane di vicolo dei Carrai festeggiava un altro amante. Tempi odorosi, tempi di timo e maggiorana, che profumavano non soltanto le pietanze ma chiunque fosse a tiro, gli impregnavano la giacca di fragranze di cottura - rosmarini, agli, chiodi di garofano - e in cui qualunque cuciniera, la più frettolosa, dava una pista agli chef stellati che adesso infestano le tv. E a parte questo: io là dentro a quei giorni ho imparato sul serio l'ambizione. Che altro non è, per come la vedo io, che avere un traguardo più in alto di te. Uno striscione sotto cui passare curvo, ingobbito, stremato. Una tappa di montagna del giro d'Italia. Ho finito le metafore ma il senso l'avete capito. Ho messo a dimora l'esperienza, a un certo punto, intuendo che le cose a cui tendo devono essere sopra la mia testa di almeno un palmo, arroccate, conficcate in cielo. Una scrittura più densa sta lassù, una casa più gentile sta lassù; le cose che non capisco, che non mi entrano in testa ma alla cui indecifrabilità non mi arrendo stanno lassù. Invettarsi è inventarsi modi per arrivare in cima: ci vuole lo stesso coraggio, e del resto una sola lettera li fa diversi. La prossima prova dev'essere più ardua della precedente. Più su, più vicina ai camminatoi della Rocca. Così arrangiandomi per il paradiso, posso almeno sperare di sollevare i piedi dall'inferno.

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Il giorno della morte di Silvio Berlusconi mi arriva un messaggio sulla chat di Facebook: Ciao, hai visto che anche lui se n'è andato? e così mentre il cuore salta un paio di battiti mi ritrovo a Montalto di Castro, è il 1983, ho sedici anni. Eravamo partiti in due ma l'amico che venne con me faceva le sei del mattino in discoteca e poi dormiva tutto il giorno, cosicché me ne andavo a spasso per conto mio, in bici, per capire un po' meglio che bestia fosse la libertà. Per inciso confesso che dopo quarant'anni devo ancora scoprirlo: l'ho sentita pronunciare da così tante lingue biforcute, quella parola tronca, che mi si sono confuse le idee. Certi scrittori di cui ho venerazione giurano che esser liberi significa non sapere mai per certo cosa voglia dire: se così è allora sono libero, e tanti saluti. E a parte questo, quell'estate fu maestosa. Di primo pomeriggio guardavo Mister Fantasy - coi videoclip di Madonna e dei Frankie goes to Hollywood, e dev'essere