Io che detesto il jazz - ma solo quello senza capo né coda per via che l'improvvisazione non fa l'arte - sono innamorato di una canzone che il jazz ha reso eterna, prelevandola dagli spirituals che i neri di New Orleans cantavano ai funerali. Già dalla fine dell'800 pare che da quelle parti si usasse inumare la gente intonando marcette spiritose, e ballando, sbronzandosi a tutto spiano e affidando ai santi - con tutta l'allegria possibile - l'anima del trapassato. Così tra le nenie e le melodie dimenticate, una è passata alla storia, perché è magnifica: l'ha presa Louis Armstrong, l'ha presa Fats Domino e l'hanno resa immortale. Sto parlando, se non fosse chiaro, di When the Saints Go Marching In, capolavoro da canticchiare dondolando la testa a destra e a sinistra quando uno è giù di corda: fa buon sangue come una birra con gli amici ma senza gli effetti collaterali dell'alcol. Lo sa perfettamente anche Jerry Drake, che una volta che era di umor nero fu sfiorato dalla tentazione del vuoto, mollò la cloche del Piper e si dispose ad aspettare lo schianto sopra la foresta amazzonica. Lì gli venne il sospetto che la vita fosse una buona alternativa anche quando appare spietata, raddrizzò l'aereo e lo riportò in quota. Un attimo dopo lo sentiamo cantare quella canzone, ma a squarciagola proprio. Cioè, non è che lo sentiamo con le orecchie, perché non c'è sonoro nei fumetti, ma dev'essere andata così, ce lo immaginiamo, e l'immaginazione esplode al cuore più tremenda di qualunque boato. L'ho conosciuto nel '75, Jerry: avevo otto anni. Lo chiamavano con un soprannome sin dalla copertina, e siccome capitava che talora ne inventassero anche per me, di fastidiosi, lo pensai familiare. Il suo era lusinghiero come un grido di battaglia - Mister No - e glielo avevano affibbiato durante la guerra, non mi ricordo se la seconda mondiale o la Corea, perché era un bastian contrario, un anarchico, nei tratti somatici una sintesi perfetta tra Paul Newman e Steve McQueen. Beveva, fumava come un turco, andava a donne, Mister No. Lo picchiavano come un tamburo, alle volte. Non ci ho messo tanto a sperare di essere come lui, da uomo: senza padroni e, nonostante le apparenze, onesto, pulito. Per trentun anni, una volta al mese, abbiamo avuto un appuntamento: distendevo le gambe sul divano e lo accompagnavo nei guai più assurdi. Gli guardavo le spalle. In cambio, lui ha fatto da testimone alle mie stagioni, meno innocue della sua, più feroci. Fino al 2006, quando hanno chiuso la serie. Ora la riaprono, tredici anni dopo. Io sono invecchiato, ho segni sotto gli occhi e tatuaggi di sangue. Lui è rimasto uguale, a vivere in quella baraonda puzzolente che è Manaus. Il 3 luglio Jerry ritorna, e con lui la mia fanciullezza. Ed è la fortuna più gigante che un narratore di memorie possa incontrare.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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