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Il ricordo perfetto

Non volevo camminare così tanto ieri sera, ma c'era ancora luce, ero in pace, e non mi sono messo a contare i passi. La stradina che da Itieli sale verso il boschetto di aceri, una volta sterrata, ora levigata d'asfalto, se la assecondi ti fa arrivare lontano da tutto, a cercar more - quando è stagione - o a goderti la compagnia di te stesso per il tempo che serve a fare il punto della situazione. Andavo con un bastone da passeggio - da quelle parti girano cani randagi e una volta uno assai rabbioso attaccò Pietro - e intanto rimuginavo progetti di scrittura, e ringraziavo il cielo della bella vita che finalmente ho addosso. Così leggero arrivo a una casa isolata dove una specie di eremita vive senza tv e senza frigo, separato dal mondo come io finalmente lo sono dal dolore, e grato come me di quella sorte. Si dà il caso che quel signore sia anche il padre di un mio amico: è burbero con tutti - tipo Dinamite Bla - e non lo incontro da trent'anni. Lo trovo che sta seduto sulla roccia squadrata davanti al cancello, da cui parte, a destra e sinistra, una recinzione di reti robuste e paletti di ferro: sia mai gli esseri umani arrivino a tiro. Mi accoglie con un gran sorriso, mi ha riconosciuto: si vede che oggi gli va l'acqua per l'orto. Ha quattro denti - due sopra e due sotto, - una camicia a frange alla Zeb Macahan, e un cane accanto, nero, grosso come il peccato. Senza convenevoli mi interroga: Lo sai che Roberto ha scritto un altro libro? Quest'altro mese me lo porta a regalare. E io fingo, annuisco, sto al gioco. Mi fa bere una china - devo, se no si offende - va a prendere la bottiglia in casa e me la versa in un bicchiere di plastica, lì in mezzo all'erba; trangugio, parliamo di niente altri dieci minuti e poi torno indietro sbarellando. Tipo alle nove, e in capo a due caffè che mi hanno rimesso lucido, chiamo Roberto, gli racconto. Quello che mi svela è romanzesco. Giocando sul fatto che il padre vive così per conto suo da essere un alieno, s'è inventato un mestiere: gli ha detto che fa lo scrittore. Ma non  di nicchia come me. No: uno famoso. E che ha vinto un sacco di premi, e va in tv, e lo chiamano alle conferenze, e lo pagano una barca di quattrini. Da quindici anni gli somministra questa panzana - che magari fa meno danni della china. E ogni sei, sette mesi acchitta una storia, la porta in copisteria, sceglie la copertina, il titolo, e la trasforma in libro. Un libro solo per volta, una copia e basta, per suo padre. E cosa diavolo scrivi? - mi viene da chiedergli. Oh, qualunque cosa, faccende brevi, arrangiate alla meglio, tanto lui mica le legge; non ha mai letto un libro in vita sua e gli unici che ha in casa sono i miei: non è da ridere? Mi spiega che lo fa per tenerezza, e per tenersi da conto un ricordo vorace quando il vecchio sarà morto. Vorace? - gli domando Certo: si mangerà tutti gli altri, sarà il ricordo perfetto. Toccherà pure averne uno. Indago ancora, e allora lui ammette: Ho cominciato per scherzo, ho visto che gli occhi gli luccicavano, non ho più smesso. Riattacco intenerito, col sospetto più fitto del mondo: che Robi, che fa l'ingegnere, sia in realtà più scrittore di me e di chiunque altro. Per via che sa farsi amare, visceralmente, dalla totalità del suo pubblico.

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