Passa ai contenuti principali

Il peccato originale

Non per caso, io credo, a Narni il Pincio sta a una curva da porta Romana. Dopo la guerra, mi raccontano, lì c'era in effetti un parco che aveva la tenera pretesa di assomigliare, in scala, al prototipo, e d'estate tanti ci andavano a respirare, a leggere Il Messaggero sulle panchine nuove, e i ragazzi a guardare le impiegate dei notai che rincasavano ancheggiando. Poi ci costruirono un palazzo orizzontale, il giardino fu segato a metà e si perse la profondità dell'orizzonte, almeno da un lato, che l'altro dava sulle gole del Nera e non ebbero il coraggio di scempiarlo. Ci andavamo anche noi, nei primi anni Ottanta, passando tra le sbarre del cancello, larghe: la banda dei miei tredici anni, dico. Ecco chi eravamo: Nando, Pappo, Carla, e Fabio, Sabrina, e poi Bruno, e Tonnarini, che una volta poggiò un occhio sulla punta di un'inferriata, a sfidare la sorte, e noi che lo incitavamo a cecarsi. Vivevamo lì, accampati, gran parte del giorno, il tempo stretto tra la fine della fanciullezza e l'inizio della stupida adolescenza, età fastidiosa quanto altre mai. Mi derisero perché dissi che m'ero iscritto al Classico, un pomeriggio, e per via che mi sarebbe venuta la gobba a furia di tradurre greco e latino. Poi non andò così, ma ci contavano, quelli, mi sa. Altre cose succedevano, comunque: i feroci tornei di tennis, per esempio, con una corda per rete e le palle di spugna, e a turno facevamo i telecronisti a bordo campo; e di calcio, costruiti come un girone dei Mondiali, per quanto numerosi e scalmanati eravamo, scappati di casa e dalle madri, certi momenti. Fu allora che presi confidenza con la capacità tutta umana di aggiustare a piacimento le cose, trovare scorciatoie, intorbidare quel che è limpido. Successe nell'ultima partita di un gironcino a tre squadre. Bastava il pareggio perché andassimo tutte e due avanti, la mia squadra e quella contro cui giocavamo, tagliando fuori la terza, che aveva finito i suoi turni. E così, invece di darci battaglia e provare a vincere, i capitani si accordarono per addomesticarla, quella partita, e ogni volta che una squadra andava in vantaggio ecco che faceva di tutto per far segnare l'avversaria. Capii l'antifona quasi subito ma trovai il coraggio di ribellarmi solo verso la fine. Feci un paio di gol e rovinai la frittata: non mi andava di imitare i giocatori veri, che giusto a quel tempo erano invischiati nel calcio scommesse. Finì che mi esclusero dal clan per un paio di settimane, e mi guadagnai la fama del rompicoglioni che non sa vivere, e non coglie le occasioni quando pur gli tornano utili. Talora, adesso che gran parte di tutto quel che c'è mi pare pericolosamente finto - lo sport, la politica, le parole dei giusti all'apparenza - ripenso a quella storia. E mi accorgo che prima di poter correggere il peccato originale dell'imbroglio, che abbiamo nel sangue a ogni età, agli esseri umani che siamo toccherà qualche altro centinaio d'anni di evoluzione. E magari neanche basteranno.

Commenti

Post popolari in questo blog

Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...