Quel gran silenzio acquartierato in casa ho provato a farlo uscire,
oggi, spalancando la porta: ha fatto Woof, come l'aria dal tubo delle
palline da tennis, e se n'è andato per i fatti suoi, per il mondo. A
saperlo l'avrei cacciato prima, ma le sventure hanno i loro tempi,
sostano e vanno a capriccio. Magari adesso agguanta certi broker
ciarlieri che ti fregano il denaro già che han giurato di
moltiplicarlo, e quelli si ritrovano muti, e disarmati. Beato chi li incontra
da qui a domani, allora, mentre io faccio come il silenzio: scappo dal
sotto vuoto e mi arrampico sulle colline attorno, e tutto si placa: i
miei nervi, il senso di fastidio per gli uomini, e il pomeriggio prende
il colore lucido delle cose al dopopioggia.Vivono due file di case, in uno spigolo della provincia reatina che si
infila in Umbria come il gomito tra le reni di una figlia addormentata,
che hanno nome di Lugnola. C'è Configni, prima o dopo, a seconda di dove arrivi, c'è Vasciano, c'è Vacone, col suo ristorante solo per due; e nobilmente, sempre nei paraggi, c'è Itieli, pinnacolo inespugnabile, rocca da cui resuscito il passato per la fortuna di poterlo raccontare. Per darvi delle coordinate, dico. So che esistono posti dal genius loci dispettoso - prende e dà
malinconia, cuce e scuce ebbrezza, e sentimenti ingovernabili, se fai
tanto di solcare una piazza dalla luce lunare, o entrare in un caffè al
mattino, che devono ancora portare le brioches, e così quel gesto sembra
inutile. Qui no. Lugnola ha in serbo una felicità
sottile e costante che ti si appiccica ai vestiti, ti chiarisce i
contorni di un desiderio fino ad allora incerto - è capitato: ho
scoperto là cosa voglio scrivere - e una panetteria lungo la strada dove
chiudono alle sei di pomeriggio, ma se suoni il campanello son contenti
di aprirti, perché ci abitano sopra, e hanno finito di sfornare, giusto
in quel momento, crostate fantastiche. L'abbiamo mangiata lì,
spezzandola con le mani, sbriciolando sul patio, attirando passerotti
ardimentosi che saltabeccavano, mentre il sole cadeva rosso nelle tasche
dell'Appennino. La sera - perché è vitale, a ingannare la tristezza del
ritorno, un'altra bellezza attaccata, - un progetto di viaggi e fotografie ci ha conservati allegri. E il silenzio in casa - giovane, non quello severo del mattino - una
volta spente le voci e la tv, era finalmente la culla di un riposo per
anime leggere.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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