Una volta di queste giuro che faccio il gesto di andarmene, tutto il teatro dei preparativi del ritorno, gli avanzi della cena nelle buste Ipercoop, stacco il contatore della corrente e nel buio dò due giri di serratura. Ma resto dentro, acquattato tra il divano e il muro, sotto il quadro di Sara che ha rifatto Gaugain, trattengo il respiro e aspetto. La casa che crede d'esser vuota comincerà a sgranchirsi le ossa, stirerà le vertebre, cigolerà i cardini, e allora io saprò per certo che è viva. Il candelabro scolato di cera, il trumeau di Clara, il pouf blu che ti inghiotte, se fai tanto di sedertici: tutto si muoverà, e parlotteranno fra loro - quegli oggetti di arte povera - e si scrolleranno la polvere i cuscini, e la scansia dei piatti cupi ammetterà Finalmente se ne sono andati, quegli scocciatori. Le case, disabitate non lo sono mai, sono anime stanziali, tormentate o allegre a seconda del tempo, delle stagioni, proprio come noi. Io vorrei vivere il paradosso - e sperimentare il gusto - di stare in una casa quando non c'è nessuno, nemmeno io, quando la festa è passata, e vedere che diavolo succede. C'è questa presunta inutilità degli oggetti appena non li usiamo che è un malinteso bello e buono: le cose esistono a prescindere, accumulano tempo, fanno la nostalgia, e quando le ritroviamo - un giorno, una settimana, un anno dopo - si sono appena rimesse in riga, sono dove contavamo fossero, ma in realtà impercettibilmente spostate, perché gli piace farsi beffe dei villeggianti, e sfidarli a ricordare. Hanno un tale carico di vita addosso, di impronte digitali, pianti, risa, urla, euforie, tradimenti, che serbano gioia e patiscono tormento con la stessa ostinazione degli esseri umani. Non lo danno a vedere - è tutta qui la differenza - e se ne accorgono solo le anime affini, i sognatori, e talora se ne accorge Franceschini - che un po' eccentrico lo è, quando si nasconde nella notte a giocare la sorpresa. A ogni sentimento esploso corrisponde un oggetto che lo assorbe, per cui i tonfi, i passi e i versi nelle stanze di nessuno sono riverberi - non c'è da averne paura. Al contrario: è una bella fortuna. A un altro tipo di fortuna - la non casualità - pensavo poche ore fa, prima di questo dopo che ho raccontato: viaggiavo in corriera e, attorno, aprile moriva con cento sfumature di verde, tutte differenti - tra le chiome dei salici e le cime dei campi, e i tetti delle case coloniche, e la macchia impenetrata sotto il cielo. Intinto in quel mondo mi è nato il sospetto che agli scettici occorra un mucchio più di fantasia rispetto a chi crede in una qualche speranza: nessun caso saprebbe costruire una bellezza così razionale. E ancor meno, due fortune nello stesso giorno.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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