Non si vede ma ho le mani rotte, oggi che alla cura del tempo ho regalato fatica, e i polmoni compressi, e i muscoli attorcigliati; va così perché non so altro sistema che alla vita si intoni meglio: fango, sudore e polvere da sparo. Mi sporco di tutte le cose da fare, allora, come tuffare le mani in un fiume di vernici, e sono multimediale mica per scherzo, certe volte, giacché se faccio la spesa non vuol dire che contemporaneamente, col cestino a rimorchio, non chatti con Valeria attorno a un capitolo irrisolto, o non cospiri per andare a scrivere un po' in collina - sempre che qualcuno non mi creda con l'amante - per il fine settimana. Va così il mondo, quello dentro la mia testa, dico, che gira al pari di una giostra eccentrica, segue traiettorie tutte originali, e almeno con gli artisti, per questa lateralità, ha qualcosa da spartire. Così facendo taglio piccoli traguardi che sono figli della tigna: l'esperienza mi dimostra la saggezza del teorema, non c'è il rischio del contrario. La fatica tuttavia, questo discreto fardello di cose da sapere e gestire per la professione che faccio, discende a sua volta da un malinteso. Il malinteso della giovinezza. Mi spacco la schiena ora perché non l'ho fatto un tempo, o l'ho fatto male, e saltuario. Consapevole dello sciupìo, provo a dire una cosa ai ventenni, e non suoni retorica: io, ragazzi, fossi in voi studierei. Ma proprio tanto, fino a sanguinare, fino a soffocare. Qualunque cosa, in qualsiasi direzione, come ragione di vita. Come sistema. Avessi di nuovo quell'età farei l'alternativo, per la miseria, ma sul serio, così da non sprecare la giovinezza. Quella dei pochi anni è la stagione del lavoro, in cui tocca seminare più terra possibile. Ribalterei la logica, insomma, disarmerei l'istinto. Sentite: fino ai trenta mi impegnerei come un matto, amplierei la distanza tra me e chi non ne è tentato, dalla curiosità del mondo e dalle idee; e dopo mi divertirei - ma sul serio e finché campo - a fare da sultano quel che mi appartiene. Perché l'avrei imparato, lo saprei fare, sarei pronto. Ganzo, no? Ho gestito il tempo al contrario, invece, scervellato me. Ho assecondato, come tutti, l'insofferenza delle regole, l'inganno dell'amore, ho trasgredito, ho fatto le ore piccole, ho visto gli anni ammassarsi senza costrutto. Il tempo che credevo ribelle era in realtà una convenzione, e mi ha messo nel sacco. Stavo su un cavallo a dondolo credendo che fosse un purosangue dai garretti infiniti.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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