Lasciata Tuscania e le sue torri di tufo, la strada etrusca viaggia per venti chilometri tra muri d'alberi e campi gobbuti, rare anse per l'inversione di marcia, certi altri paesi incollinati - Vetralla, Nepi, perfino Capranica, se divaghi un po' - e arriva docile a Viterbo, città papista e militare, dove fanno un gelato, due coniugi anziani, di soli tre gusti ma strepitoso. Torroncino, nocciola e vaniglia, l'ultima volta che ci andai - parlo di anni lontani e forse, dio non voglia, sono morti, quegli allegramondo - e li pescavano dentro al secchiello di alluminio, niente vaschette, e sporcavano appena il cono, e per saziarmici dovetti spendere una fortuna. Poi uscii alla sera di Tuscia - al cinema dirimpetto davano Truman show, - però quella volta la vita non mi parve una finzione; tutto, anzi, era come doveva essere: tenero il tempo della giovinezza, bardate di profumi, per il corso, le ragazze, e allegre, e tiepido l'aprile, e placata la mia smania. Smania d'insoddisfazione, dico, quel tipo di sentimento che stona con qualunque progetto, a breve e a lungo termine. Del resto, la scontentezza, quando intorbidisce momenti altrimenti perfetti, è uno sperpero: un weekend da immortali, un viaggio, un nuovo libro - più centrato degli altri - vanno vissuti sgombri di nuvole. Con gli anni ho imparato a tenerla a bada, quella sragionevole amica; così oggi, che dovevo aggiustare una Pasqua rotta peggio dell'uovo fondente e siam partiti, un po' alla ventura un po' per amore, e arrivati esattamente dove era opportuno. Quando si spezza qualcosa, il modo migliore per ripararla è uscire - assieme, si capisce - darsela a gambe, mettere spazio tra sé e il motivo del contendere, per vederlo rimpicciolire, per ridurlo esausto, insignificante. Mettici poi che abbiam mangiato da pascià, e senza aver prenotato - cosa che se capita a Pasquetta vuol dire che sei nato con la camicia. Mettici che ha preso a piovere solo una volta rincasati, come avesse aspettato, come l'avesse tenuta più che poteva, stringendo le gambe, dio, per non farci bagnare. Mettici che la chiesa antica di cui andavamo in cerca - dove han girato Pasolini, e Monicelli, e pure Boldi e Lino Banfi - era chiusa ma non ce n'è importato: a quel punto eravamo sanati. Ho guidato un poco intorpidito, da lì in avanti, e per questo a velocità di crociera. E ho avuto la conferma che il lato positivo di un disastro è - posso garantirlo - fare il viaggio di ritorno con l'umore al contrario di quando sei partito.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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