Viaggio con Leonardo Sciascia sul sedile lo spazio breve tra città e collina: dove son partito c'era il sole, a salire tutto si è spento, ma proprio di colpo - dietro il tornante che affaccia una macelleria - e lo stesso il mio umore, in tinta col martedì. La tristezza è come una buca in cui precipiti - quando avevo tre anni Pietro mi disse che Luigi Tenco era cascato dentro una botola mentre cantava, per nascondermi più che poteva la possibilità umana del suicidio, - e come da una buca è assai complicato venirne fuori. Credo però di aver intuito, ormai da qualche tempo, che quella bestia non è il contrario della felicità ma della soddisfazione. Mi assalta quando non sono soddisfatto di come ho vissuto i giorni che ho - una vacanza, una diretta in radio, una pagina scritta, una conversazione con chi amo - ed è un discorso che per certi versi si lega al concetto di responsabilità. In altre parole mi piace dare a garanzia del mio lavoro e degli affetti una dichiarazione di buona fattura: sono venuti bene, a regola d'arte, li ho curati nei minimi dettagli, li ho costruiti perché fossero - appunto - soddisfacenti. E quando non lo sono, quando riescono male, e se risultano difettati come tappeti all'asta, so che è colpa mia, e che in qualche passaggio mi sono ingannato, tipo con l'algebra, da ragazzini. La tensione a apparire etico, ad esserlo, è tutta in questo gioco tra ambizione e risultati, e i risultati talora sono desolanti. Cosa che ha il vantaggio, però, di spingermi a fare meglio, la volta dopo. Fare il padre, ad esempio, è una religione spaventosa: devi seguire il canone, amare e servire incondizionatamente, senza ricevere niente di buono in cambio; fingersi scrittore una guerra quotidiana contro chi è più bravo - e vorresti chiedergli come fa, a essere così crudele - e contro chi lo è di meno, ma è presuntuoso, e vanta una legione di lettori sempliciotti. Ecco allora come la metto nel sacco, la tristezza: oggi ho fatto così. Sciascia, tolto dal sedile e letto, ha il suo perché. Lo lego al sospetto che quel che vale va cercato con ostinazione, non sta in tv, è piccolo, nascosto, fuori catalogo. E che di gran parte di quel che ci propinano a palate possiamo tranquillamente fare a meno. Così facendo, vi garantisco che già a pagina tre di Porte aperte, nella buca c'era caduta la tristezza. E la soddisfazione di leggere una storia di assassini scritta magistralmente stava lì a farmi allegria.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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