Mi salta addosso mentre guido, a un tornante qualunque, già che prevedo una giornata opaca e stanca di avventure, o appena uno sconosciuto mi sorride in piazza, o m'intenerisco a subire da Pietro una gentilezza imprevista. Mi stiepidisce, è un avamposto di mare quando il mare non è in programma, l'orizzonte che si rilassa in braccio a un temporale, e s'azzurra dove era piombo, sopra la città che ancora vedo solo da lontano e che è la mia. Non ho meriti se non quello fievole di crearne, talora, le minime condizioni. La dolcezza di vivere, dico: non saprei nominarla altrimenti. Mi vola in petto, s'appoggia e s'allarga, come una rosa di proiettili ma benefica, e allora: evviva. Stamattina ho messo una canzone di Ruggeri che l'ha incoraggiata - quello è un gran gesto a prescindere; incoraggiare, dico - e voilà, eccola: furtiva, pudica, e m'ha riempito il sangue di glicemia. Senza controindicazioni però, parlo di uno zucchero da consumare a volontà, è anzi una cerca perenne: in altre canzoni, in certe traiettorie del vento - che mi raduna come in parata le voci della memoria, - nel progetto nuovo che mi frulla in testa, e che ha a che fare coi viaggi e l'anima dei posti che voglio raccontare, nel primo giorno di primavera - perfino nella sua attesa invernale - nelle lancette da spostare un'ora avanti, il 31 di marzo, per vivere alla sera un chiarore che si trattiene con gli uomini, specie di ospite miracoloso. Tutto quello che è piccolo, invisibile, che non si tocca, ha in effetti questo potere antibiotico di curare la mia vita, elevarla dalle cose basiche, i tramestìi, gli scazzi, ed è una meraviglia, quando arriva. Così vivendo, a me pare che i pesi si alleggeriscano: se alla fine di una riunione di condominio mi aspetta una corriera per scappare in collina, una cena frugale in radura, un dopocena in compagnia, quell'impiccio è solo un contrattempo, passa e va. In altre parole: questa ostinazione è la rotta della mia vita, una tenerezza esistenziale eletta a sistema. Dev'esser cominciata il giorno di questa scena qua sopra - siano benedette, quando catturano debolezze così formidabili, le fotografie. Una sorta di battesimo. Da quel dì, la dolcezza mi adottò, e quando non c'era l'ho indagata, speranzoso. E ancora adesso faccio lo stesso, oggi che ho perfino la fortuna di scriverne per i miei centoquattro indulgentissimi lettori.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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