Quando ad Ale cadevano i capelli a ciuffi, e ci tenevano nascosti i bollettini medici, e dopo che se ne fu andata: quando il giovedì avevo già bruciato la settimana e appuntamenti non ne prendevo più, e Susi era da Rita e Pietro, e sotto le finestre di via Patrizi passavano fatui i fidanzati, allora, in quell'inferno, nel girone dei disperati che mi avevano destinato, ho preso a curarmi, ma sistematicamente, ho cominciato a prescrivermi dosi massicce di farmaci salvavita, e ho provato così forte la tentazione di morire che sono sopravvissuto. Sono diventato l'oculista, il cardiologo, l'epatologo, l'ortopedico di me stesso. E lo psicologo. Ho intuito cosa mi faceva bene - perfino per il tramite della tristezza, come un ambasciatore torvo che porti una bella notizia, - cosa mi aguzzava la vista, cosa mi regolava il cuore, cosa mi sfiammava il fegato, cosa mi aggiustava le ossa, cosa mi ricuciva l'anima. E così sfebbrai, ripresi a camminare per le città, solo ma con un'insignificante speranza addosso - meglio che niente, - ripresi ad accennare sorrisi, ricominciai ad allevare la curiosità. Non ho interpellato nessun dottore vero, in quegli anni: una volta o due sarò andato dal dentista, tutto qua. Ho solo moltiplicato attorno quei piaceri che avevo sempre consumato in fretta: li ho eletti a sistema, ne ho favorito il corteggiamento, ho riaperto la strada che li portava a me, e ho capito che nascevano da altre malinconie, altre ingiustizie divine, e da inadeguatezze a stare al mondo compagne della mia. Parlo di certi narratori, di parecchi cantautori - perché la musica, anche la più potente, se è nuda è fiacca alle orecchie degli umanisti, - di quattro o cinque autori di cinema e teatro, e di un solo pittore: Edward, l'americano. Ho studiato, mi sono fermato sopra le opere piccole e giganti come mai prima, al modo di uno che si risvegli dal coma e deve recuperare gli anni sprecati a dormire. Il dolore a quello, mi è servito: a capire che alle cose belle va dedicato più tempo e che vanno sezionate, smembrate, per scoprirne i dettagli, e che solo svelandone quei dettagli potevo esserne compiaciuto. Così, quando mi chiedono un rimedio alla controvoglia di vivere, a un principio di disperazione - c'è chi mi fa queste domande, lo credereste? - io racconto questa storia qui. Le parole salvano. Messe in un certo modo, scritte, cantate, recitate, ci suggeriscono che siamo parte dello stesso destino. E consolandoci, ci fan passare le paturnie, e regalano un'aspra dolcezza. Senza contare che sono l'antidoto più sicuro per scoraggiare i malapensieri e le tentazioni del vuoto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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