Le parole: chissà chi è stato il primo essere umano a pensare che si potessero cantare. Io credo si sia trattato di un genio fatto e finito, altro che storie. Pensateci: questo tipo aveva in una mano un alfabeto e nell'altra delle note, come un dolciaio che in due ciotole differenti tenesse crema d'uovo e alchermes, e gli venisse la sfrontatezza di mescolarli. Uguale, allo stesso modo. Per amor d'alchimia il pasticcere ha inventato la zuppa inglese, e quell'altro le canzoni. Eccoli, i benefattori dell'umanità. Ci ripensavo ieri, prima che l'affetto di amici e lettori sconosciuti - cui sarò debitore a vita: gli uni e gli altri - mi travolgesse contringendomi a improvvisare dediche strampalate sul libro che imprigiona, per liberarle dalla rete, certe memorie care di questo blog. E appunto la memoria ha corso nuovamente a stagioni lontane, dentro cui le canzoni che oggi mi fanno intenerire, e rallentare il passo se vado per i boschi con le cuffiette, dovevano ancora scriverle - una discreta parte, almeno. Per via che le canzoni sono la spina dorsale di ogni perversione che incollo, e anzi spesso la incoraggiano, e me le fanno mettere in fila come dio comanda, quelle sillabe stente. Sono un cantautore pure io, allora, e Gli Astronauti a ben guardare è un album di pezzi rockromantici, come il trucco della ragazza che strappa da sé il primo amore, in quella ballata mirabile che a vent'anni m'incantava. E comunque, eravamo in tanti, giuro. Ieri, dico, sto di nuovo parlando di ieri. Ho il sospetto che i libri accorcino le distanze tra le persone, pensa te (sì anche le ciambelline, ok), perfino quelli piccoli come il mio, imperfetti; pur imperfetti hanno il potere di farti ritrovare i vecchi amici, quelli del liceo, tipo, e dopo andarci a mangiare assieme come se tutto il dolore distribuito un po' a testa non fosse successo; e quelli vecchissimi, quelli di un tempo perfino primordiale, in cui la vita era appena cominciata e non pensavo potesse a un certo punto andar così di corsa, e la giovinezza diventare così improvvisamente maturità storpia. Le primavere all'improvviso, allora, e i ritorni a Narni e a Tarquinia, spacciati ogni volta per viaggi di piacere, il dispiacere a notte, quando la paura di tutto si sdraia sulle coperte, e mi opprime, e per scacciarla dormo: io questo canto, con la mia voce sottile. Però, fossero serviti solo a mangiare patè di fegato sul pane abbrustolito, in quella trattoria assediata dal vento, in mezzo alla combriccola che ha beffato il tempo, fossero serviti solo a quello questi sette anni di ricordi vestiti a festa precipitati d'inchiostro sopra i fogli, sarebbero già, per il tenero narratore, il premio Strega più stupefacente.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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