Centesimi. È la parola che pronuncia il ragazzo nero fuori del supermercato. È rivolta a me, che esco con una busta leggera dalla porta automatica. Arrivo a quaranta, con le monete in tasca, glieli metto in mano, lui sorride. Vado via, passo le strisce pedonali, passo davanti a un negozio di spose, prendo per la solita strada del mattino, solo: fatta al contrario, per il verso del ritorno, e mi dimentico. Di lui, della sua sorte di traghettatore di spesa, della mendicanza. E c'è pure il caso che mi lamenti perché devo tornare a casa in fretta, mettere in ordine, lavare il pavimento; e che mi stranisca non trovare la parola giusta dentro una frase, lasciar bloccata una scena a mezz'aria, non capire se vola o precipita. Salvo poi ritrovarmelo davanti, per un gioco di ricordi - stavolta a breve termine - e immaginare. Giuro: immagino così forte di essere lui che finisco per esserlo - questo salva l'etica del narratore: l'immedesimazione. Dunque riè mattina, allungo la mano aperta e uno che si illude di essere scrittore ci mette quaranta centesimi, come li facesse cadere nella fessura delle candele, in chiesa. Sorrido, ma vorrei dirgli Potevi arrivare a un euro, taccagno. Lo guardo andare via e resto là impalato davanti al market perché così mi han detto di fare, quelli della gang. Vanno e vengono donne grasse con cani al guinzaglio, vestiti come salsicce. Ci parlano, li chiamano Amore, Tesoro di mamma. Passano uomini risoluti, sui giornali che hanno in mano si parla di me. Vogliono cacciarmi fuori, vogliono farmi entrare. Altre persone che chiamano ministri, sottosegretari, portavoce, leader, opinionisti, litigano, si insultano; chissà se lo sanno che io l'ho capito che non è per la mia vita, che strepitano. Lo fanno per se stessi, per la loro parte padrona, per il cortile in cui vivono, per la convenienza. Chi vuol rimpatriarmi - anche se una patria non ce l'ho - è un razzista; chi vuol tenermi qui, un affarista. Pensano che non lo sappia, che sia uno sciocco, o che non capisca quello che dicono. Che poi è vero, afferro tre parole su dieci, ma vedo i sentimenti, tutto l'alfabeto, ce l'hanno scritto in faccia. Possono abbindolare i fessi che per difenderli si scannano su Facebook, non me, ché il silenzio mi fa accorto e me lo immagino che biancore, tutte le loro coscienze. Chissà se l'han capita che di loro mi importa assai meno di quanto a loro importi di me. Chissà. A me avrebbe fatto comodo un po' di fortuna, una nascita altrove e una dignità meno insultata. I loro discorsi sul destino che reggo, capire tra le parti chi ha torto e chi ragione, sono cose che non fanno le mie priorità.
Centesimi. È la parola che pronuncia il ragazzo nero fuori del supermercato. È rivolta a me, che esco con una busta leggera dalla porta automatica. Arrivo a quaranta, con le monete in tasca, glieli metto in mano, lui sorride. Vado via, passo le strisce pedonali, passo davanti a un negozio di spose, prendo per la solita strada del mattino, solo: fatta al contrario, per il verso del ritorno, e mi dimentico. Di lui, della sua sorte di traghettatore di spesa, della mendicanza. E c'è pure il caso che mi lamenti perché devo tornare a casa in fretta, mettere in ordine, lavare il pavimento; e che mi stranisca non trovare la parola giusta dentro una frase, lasciar bloccata una scena a mezz'aria, non capire se vola o precipita. Salvo poi ritrovarmelo davanti, per un gioco di ricordi - stavolta a breve termine - e immaginare. Giuro: immagino così forte di essere lui che finisco per esserlo - questo salva l'etica del narratore: l'immedesimazione. Dunque riè mattina, allungo la mano aperta e uno che si illude di essere scrittore ci mette quaranta centesimi, come li facesse cadere nella fessura delle candele, in chiesa. Sorrido, ma vorrei dirgli Potevi arrivare a un euro, taccagno. Lo guardo andare via e resto là impalato davanti al market perché così mi han detto di fare, quelli della gang. Vanno e vengono donne grasse con cani al guinzaglio, vestiti come salsicce. Ci parlano, li chiamano Amore, Tesoro di mamma. Passano uomini risoluti, sui giornali che hanno in mano si parla di me. Vogliono cacciarmi fuori, vogliono farmi entrare. Altre persone che chiamano ministri, sottosegretari, portavoce, leader, opinionisti, litigano, si insultano; chissà se lo sanno che io l'ho capito che non è per la mia vita, che strepitano. Lo fanno per se stessi, per la loro parte padrona, per il cortile in cui vivono, per la convenienza. Chi vuol rimpatriarmi - anche se una patria non ce l'ho - è un razzista; chi vuol tenermi qui, un affarista. Pensano che non lo sappia, che sia uno sciocco, o che non capisca quello che dicono. Che poi è vero, afferro tre parole su dieci, ma vedo i sentimenti, tutto l'alfabeto, ce l'hanno scritto in faccia. Possono abbindolare i fessi che per difenderli si scannano su Facebook, non me, ché il silenzio mi fa accorto e me lo immagino che biancore, tutte le loro coscienze. Chissà se l'han capita che di loro mi importa assai meno di quanto a loro importi di me. Chissà. A me avrebbe fatto comodo un po' di fortuna, una nascita altrove e una dignità meno insultata. I loro discorsi sul destino che reggo, capire tra le parti chi ha torto e chi ragione, sono cose che non fanno le mie priorità.
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