Ho capito: non sono io che voglio ritornare a Narni, è Narni che mi chiama. Vuole che mi sieda sulle sue pietre - le scale, i gradoni, i muri bassi, i dissuasori del traffico - e la completi. Sono la figurina che manca per finire l'album, il topolino scappato che deve ritornare in gabbia. Per questo mi accoglie ogni volta con lo spettacolo più commovente che può: cielo tinto di rosso dietro il palazzo del cinema, vento gentile in vicolo del Moro, piccole onde nella fontana maggiore. Mi corteggia, è come dicesse Vedi che ti perdi a stare lontano? e apre le porte dei ristoranti al mio naso, alla goloseria che mi prende a passarci davanti, e la invita a cena. I giorni lunari, passati e speriamo molto futuri - perché torneranno, inevitabilmente, ma più tardi possibile - si curano in quella città, che ha il pregio dei libri antichi: polverosa, nostalgica, piena di appunti. Non ho paura di invecchiare - devo ancora diventare adulto, del resto - perché la fonte della mia giovinezza è questo posto arrampicato, dove la primavera è incredibile e già a gennaio la intuisci che arriva, ma solo se ci sei nato. A chi viene da fuori suona tutto più difficile, e misterioso. Clara ai suoi tempi la apriva, la primavera, come quando inaugurano le Olimpiadi: si vestiva a festa e con Zaira, il 21 di ogni marzo, saliva a Porta Romana, curvava davanti allo spaccio di Armanda e coll'andatura nobile raggiungeva Feronia, e lì beveva l'acqua direttamente alla fonte, chinandosi, la mano a cucchiarella. Le mie primavere le ho vissute spesso in anticipo: già a gennaio, come ora, ne indagavo un indizio, tra la finestra chiusa - una foglia verde, una donna scappottata - e mi rinasceva la speranza al primo rullìo di tamburo che batteva il tempo del corteo. Certe mattine, che la primavera timidamente si presentava ma era ancora freddo, Rita mi avvolgeva la sciarpa al collo e mi metteva in mano la pentolona più grossa. Appena senti il rumore, scendi - diceva. Il frastuono dell'Ape della lattaia si avvertiva in effetti già dalla curva della Memoria. Quando si fermava davanti alla porta io le facevo riempire la pentola fino all'orlo, pagavo le duecento lire e risalivo le scale con l'equilibrio dei funamboli, senza versarne una goccia. Fino a che inventarono la Parmalat e il tetrapack, e la signora finì disoccupata e poi morì. E a parte questo: era una prova di abilità, e responsabilità, quella. L'aveva proposta Pietro e Rita non ci aveva trovato da ridire. Così ho imparato a camminare sul filo delle stagioni, e meno male, perché quel che è rimasto sotto è un mare di memoria che non mi ha sommerso, e che posso raccontare a me stesso, e a chiunque ha la pazienza e il cuore di starmi a sentire.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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