Cavolo se mi piace, vivere. E non solo i giorni speciali, che poi sono qualche decina, a dir tanto, sparpagliati in trent'anni, ma proprio i giorni qualunque, volgari, fieramente feriali. Ci pensavo, a 'sta cosa, oggi che scendevo ilare giù per la mulattiera ghiacciata in cima alla quale ho comprato casa - preda di chissà quale furor d'amore, ché qui ci nevica tutti gli inverni e io sono per la primavera. Scendevo con le Sneakers ai piedi, che sulle lastre gelate fan poca presa, e ho rischiato l'osso del collo un paio di volte, ma non importa, perché ero leggero. Andavo in ritardo a comprare i giornali. In ritardo nel senso che era già quasi notte e uno sano di mente i giornali li compra al mattino. Io no, mi girava così, oggi, è una cosa che mi sembrava eccentrica - è ganzo essere eccentrici - e che ha a che fare col concetto di piacere, cui modelliamo tutte le nostre azioni. Mi piace comprare i giornali la sera perché mi piace vivere l'attesa di leggerli, e arrivare in ritardo sulle notizie in un tempo di frenetici anticipatori. Allo stesso modo è grazioso aspettare altre piccole gustose feste interiori, e prepararsele, costruendo la giornata in modo che arrivino al momento giusto, quando ho disarcionato - ma onorandoli - gli impegni più gravi, e mi snuvolo. Un capitolo e uno solo di Espiazione, per via che un bel libro è come un mare aperto, va nuotato con lentezza, o ti stanchi e affoghi; un salto in drogheria ad annusarne l'aria, con la scusa di comprar cioccolato Vannini - che è poi come approfittarsene: due meraviglie con un solo gesto; una sigarettina sul terrazzo al tramonto; puntare il film su Rai Movie delle 21, e cascasse il mondo lo voglio vedere, perché l'ho sempre perso - è con Denzel Washington - e stasera stacco il telefono, e non ho figli e non ho amici; preparare una camicia fresca di lavatrice sull'uomo morto, cosicché domattina il primo contatto è un abbraccio profumato. Cose che hanno a che fare - vedete? - colla capriola che fa nello stomaco una gioia minuta e tenace. Mica da ridere. Tipo quando a casa di Pietro e Rita si decise tacitamente di sdoganare un piccolo turpiloquio. Cominciai a condire il discorso di rare e lievi parolacce perché era liberatorio farlo, era un atto di adultità, e quindi una piacevole rivoluzione. Come a un certo punto al cinema cominciarono a dirle, e la censura chiuse i battenti, così io a Narni. Non per disprezzo, maleducazione. Al contrario: per onorare il piacere dell'indipendenza cui mi avevano incoraggiato.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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