Spero, promitto e iuro reggono l'infinito futuro, e grazie al cielo anche la mia ostinazione a vivere, nonostante certe stagioni nemiche che pure, oscenamente, ho attraversato. Speranze, promesse e giuramenti sono in effetti l'alfabeto del mio povero mestiere, che necessita sì di parole graziose ma anche di persone cui rivolgerle: destinatari scelti, diciamo così. L'umanità è il campo da gioco di ogni scrittura degna di questo nome, del resto, ma all'umanità bisogna un poco voler bene, per scriverne, sorvolando sui suoi difetti - quelli piccoli, beninteso - non per indulgenza ma per scansare il moralismo - nemico acerrimo dei narratori. È lo stesso ragionamento che doveva aver fatto Gastone quando, nell'estate del '92, riarrangiò al pianoforte certe canzoni segrete dei Pooh che all'epoca mi parevano monumentali, e che io poi la sera, chiudendoci dentro il suo garage a Cigliano, intonavo come non ci fosse un domani, e non avessero inventato la vergogna. Lui cioè soffocò la ripugnanza che provava per la musica leggera e per amor mio decise di farsi piacere quelle ballate semplici - salvo poi ammettere, tra i denti, una volta, che non erano poi tanto male. Ma questi li pagano pure? - chiese di primo acchito leggendo gli spartiti, ma col tempo in qualche modo ritrattò. E comunque. Successe in un'epoca in cui mi era venuta a noia l'università, ed ero tentato di mollarla, per mettermi a viaggiare al modo di Kerouac: tequila, amore libero e anfetamine. Mentre ci ragionavo su cercavo vie di fuga, e cantare giulivo accompagnato da un pianista coi controcavoli che per inciso era anche mio zio mi era parsa una delle più percorribili. Lui mi assecondò divertendosi un mondo, alla fine, e proprio per speranza, promessa e giuramento. Speranza che io ci ripensassi, su quella faccenda di abbandonare gli studi; promessa di non parlar male più di una volta al giorno di quelle canzoni; e giuramento che avrebbe messo tutta la sua arte al mio servizio. Beh, credetemi, venne fuori un piccolo miracolo: io cantavo acerbo e sottile, con la vocina stenta. Intonato, però. Ma le sue dita scivolavano sulla tastiera come una stupefacenza. Per una volta Bach cedette il posto a Facchinetti, e quando l'ho conosciuto gliel'ho detto, a Roby, di quella avventura, e lui ha detto Che bello!, e si è intenerito, negli occhi chiari.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post