Spengo tutte le luci e sto zitto, mi fermo, mi interrompo. Poso la cura dei giorni in un ripiano, assieme a Cecità, faccio un cenno a Rita e esco per l'arrampicata, a digerire il pranzo della domenica. Prendo le strade che guarniscono la città come strisce di crostata e in pochi minuti - addosso - mi piove la sera: nelle tasche, tra i capelli, sul naso. Veste le cose come un attore che sul palco appaia tenero e lunare, dopo che per tutta la mattina è stato colorato, e ciarliero. I palazzi, le auto in sosta, paiono fatti di cenere, o viaggiati lì dal passato, da un film di Capra, e lo stesso l'ospedale, dove arrivo di buon passo, scortato dalla malinconia. Vedo il futuro, se mi ci impegno. L'ultima nuova casa - ho giurato che lo sarà fino a che non torno alla prima, in vecchiaia - deve essere fatta a mia immagine e somiglianza, e l'anno che verrà un carnevale di letti da rifare, ansie, scoppi di allegria, idee, preghiere, presagi. Quello che ho passato sarà l'avvenire, insomma, solo lievemente cambiato: una lampadina più luminosa in una stanza consueta, un discorso di Pietro diverso per due particolari, una premura nuova da chi credevo infertile. Vorrei invecchiare giocando le passioni di sempre - l'amore, le parole, l'attesa delle cose che ad aspettarle si fan più saporite, il tempo. Epperò vorrei disporne con più saggezza, dopo che in altre stagioni quelle bellezze le ho come dilapidate. Ecco, tratterrò. Tratterrò le persone con cui è salvifico raccontare. Tratterrò una buona intuizione, l'armatura di un romanzo migliore di quelli che ho scritto, e proverò a darle una piccola vita. Starnutirò, mi ammalerò, guarirò. Andrò al cinema, il film non mi piacerà, mi piacerà. Mangerò troppi fiori di zucca, e mi toccherà risolvere col bicarbonato. Andrò dal dentista, andrò a donare il sangue. Leggerò un libro ignobile e mi rammaricherò, pensando a quelli magnifici che non conosco. Morirò di freddo, una notte di gennaio, a aspettare il mio compleanno. Mi sentirò soffocare - maledetta fame d'aria, - e ospiterò la tristezza come un'amica severa, che ti dice la verità. Mi guarderò invecchiare mentre i ricordi si rompono, qua e là, e mi fanno dimenticare.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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