C'è il vento nel mio sogno ora più ambito, una fattoria con la veranda in braccio alla sera, l'estate di una provincia americana che somiglia a Maycomb - città inventata dove Harper Lee impalcò la sua memoria più estrema - spuntini sul tavolo, bottiglie di coca e pick-up che tagliano l'orizzonte, e ballonzolando rincasano. Prima che cada la notte, e inchiostri tutto, accendo le lampade di carta giapponesi appese al sottotetto, fumo una paglia, stiro le gambe sulla staccionata e inalo il giorno che muore. Finché, eccolo che arriva. Robert Redford, dico, con una Cadillac bianca, fantastico nei suoi ottantadue anni, vestito uguale all'ultimo film - Old man and the gun - che chissà se poi sarà davvero l'ultimo, o è uno scherzo. Sale i gradini come scusandosi per il ritardo, in fretta, e io Che ritardo? Neanche sapevo che venivi, e lui Ma ci speravi, per cui vale lo stesso, e dopo si siede, e beviamo una cosa. L'aria fresca della prateria ci leviga, spegnendo il furore del giorno, e porta l'odore dei cinema all'aperto, degli hamburger a friggere sulla ghisa, dello schermo proiettato, e dietro lo schermo, da ragazzini, c'era la realtà, da cui quel rettangolo enorme ci proteggeva. La sfiga è nascere in posti lontani dal mito, sapere che qualcuno si è sbagliato, a distribuire le sorti; disdetta è immaginare come sarebbe la vita in una latitudine differente, con in bocca un'altra lingua, addosso altri vestiti e un modo di ragionare meno cervellotico, meno europeo. La letteratura americana va a rotta di collo dai tempi di Mark Twain, e quando rallenta, rallenta colle schizofrenie di Paul Auster, popolate di doppi paradossali, e la chirurgia impietosa di Philip Roth, che va al cuore delle storie, col suo bisturi di parole. Più che un attore, Redford mi sembra un tale uscito da uno di quei romanzi: glielo faccio notare, che mi ispira. Mi faccio raccontare la finzione, poi, e lui non si fa pregare, sorride intingendo nel bicchiere il naso aquilino e le rughe si stirano, e torna giovane, e alle sue spalle la notte si spande, come un colore a olio oltre i confini della sagoma disegnata. Che grande respiro che ha, questa terra che vedo. Io credo che saprei riempirla di buone trame, o almeno provarci; non come le mie, qui, che rimbalzano sugli Appennini e mi tornano in mano. Uno sterminato spazio da colmare, c'è: mi manca. Può darsi che con gli occhi posati su un'altra geografia, le orecchie aperte ad ascoltarne i respiri, tutti noi che proviamo a esserlo, potremmo dirci, con più ragione, narratori compiuti.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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