Due anni fa ho smesso volontariamente di insegnare. Da un giorno all'altro: sono andato dal capo d'istituto e le ho detto Per me la faccenda finisce qui. Un gesto d'istinto, che alcuni elessero incauto. Rita per esempio non faceva che ripetermi E adesso? In tutto questo tempo ci ho ripensato, talora, a quella frattura. Il tempo stesso, la distanza che ogni giorno si ingrandiva, mi ha permesso di vedere più nitide le cose, come se gli occhi si acuissero a guardare l'orizzonte infinitarsi. E a parte Montale, io credo di avere oggi, finalmente, la risposta a quel mio reato non punibile, e non penso che la cambierò negli anni a venire, come uno che a poker ha in mano carte vincenti. Insomma, pensavo di aver mollato la scuola per il sospetto di non aver più nulla da darle, dopo sedici anni. E questa cosa aveva però suscitato un paradosso mica male: com'era possibile che mi fossi inaridito nel momento in cui invece trovavo le energie per cambiare vita, comporre un altro romanzo e un manuale di scrittura, rivoltare come un guanto amori e parentele e assecondare un mestiere imprevedibile e magnifico? No, la faccenda doveva essere un po' più complessa di come appariva. Per un lungo tratto è stato come una persona che hai dietro le spalle: intuisci che è lì ma finché non ti volti non sai chi sia. Ora mi sono voltato: è poco che l'ho fatto ma aveva bisogno di maturare, mi sa, questa consapevolezza. A farla breve, non ero io che non avevo nulla più da dare alla scuola, ma era la scuola che non poteva dare più niente a me. La distanza tra le cose raccontate, le meraviglie per le quali da giovane restavo sveglio tutta la notte a leggere, i soprassalti d'amore per le avventure perse nei libri e questa gioventù, questi figli del Duemila, era diventata un abisso. Non per colpa loro, sia chiaro, o almeno non solo. Ma lo scollamento tra la mia vita e la mia fede laica nella storia spaventosa dell'uomo, la mia curiosità, e il loro assoluto disprezzo per tutto quel che mi ha spesso salvato la pelle era incolmabile. E non mi importa - non qui, non oggi - capirne le cause. Non so se capiterà di tornare indietro, se tireremo le redini a questo cavallo impazzito che è la modernità. Chissà. Ma se succedesse, un'ultima poesia, colla sfrontatezza dei vecchi tempi, vorrei tanto tornare in classe a raccontarla.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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