C'erano e ci sono, attorno al tavolo, in platea, coi gomiti sulle balaustre, certi convitati sornioni che non vedi, eppure senza di loro niente si può. Io non potrei partire, sbagliare strada, chiedere ai passanti, stare in ansia perché faccio tardi, impazzire per un parcheggio, se quelli non fossero là ad aspettarmi. Hanno nomi mica da ridere: Proust, Tolstoj, Hemingway, Scott Fitzgerald, Flaubert, Calvino, Buzzati. Hanno battesimi impegnativi, che appena li evochi - innocua seduta spiritica - allargano sorrisi sulla facce, o sbalordìo, e talora producono curiosità di lettura, tanto che finisce sempre, qualcuno dei corsisti, per chiedere al libraio che ci ospita: Ce l'hai? La Scrittura della Memoria è in moto, il viaggio è cominciato. Una volta da ragazzo invidiavo i cantanti, che facevano tour pazzeschi, non tanto per il fatto di riempire gli stadi, quanto perché stavano ogni giorno in un posto diverso, e conoscevano gente nuova, e andavano a cena con la band alle due di notte in ristoranti insonni dalle serrande mezze abbassate come palpebre grevi. Nobiltà d'artista, pensavo. Privilegi. Alla fine è questo mestiere strambo, ho intuito invece adesso, che nobilita me, non viceversa - e doveva essere lo stesso per i cantanti di allora - e che mi fa raccontare assai cose. In parte sceneggiate a casa, in parte improvvisate, dacché una variabile impazzita ci vuole, per il timing - mi confida un amico attore. Ossia per mantenere desta l'attenzione per tre ore senza appesantire, annoiare. Chi legge per il gusto - è una delle cose che dico - legga quel che vuole. Chi legge per scrivere meglio, legga selezionando. È una regola aurea: ecco il perché dei fantasmi birboni, lì con noi. Sono dei fottuti punti di riferimento - scriverebbe un signore del Maine. Poi ho scoperto che parlare di libri accorcia le distanze tra le persone. Come quando sei sotto tre a zero e la tua mezz'ala s'inventa il gol della vita, e ti inorgoglisce. Scrivere non è un vanto - suggerisco a quel punto, - ma una necessità. E scrivere meglio che si può - cioè col sistema dei professionisti, smettendo di improvvisare, di scrivere solo quando se ne hanno tempo e voglia - una piccola ossessione, tipo quella di Aykroyd e Belushi. Siamo tutti in missione per conto di dio, se vogliamo spararla grossa. Si parta allora dai ricordi - e io cerco di spiegare come, e poi si arrivi dove uno vuole: a un romanzo necessario, per esempio. Il limite è il cielo. Tanto le belle storie scritte come si conviene sono sempre in cerca di occhi spalancati, cuori accesi e stupore a volontà.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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