Dallo stupore alla nostalgia è passato del gran tempo e non me ne sono accorto. Ieri ero all'Upim e le donne della mia famiglia mi compravano i vestiti, mi mettevano davanti agli specchi, discutevano tra loro su quale mi stava meglio, e senza chiedermi se mi piacessero ne prendevano due o tre, per i giorni di festa e per quelli di tramontana. Mara, Gina, e in subordine Rita erano le Parche del mio destino di piccolo lord, e ci provavano gran gusto. Oggi ci entro da solo, a cercare un K-Way, e certe ombre del 1974 mi pare scivolino ancora sui pavimenti, si impalino dietro di me che sto davanti a nuovi specchi, e giudichino quello che indosso. Sta sempre lì, quel posto che è l'unico ipermercato dove entro volentieri - forse per l'antico imprinting che dicevo, come le papere di Lorenz - e dove mi trattengo strozzando la fretta e - tanto per ripeterlo - con un certo groppo di nostalgia. Ecco cos'è la scrittura, maledizione: ricordo e rimpianto, un frastuono di giorni e anni scappati che tornano sferragliando, treno merci carico di spaventose recriminazioni e desideri inappagabili. Il mio paradiso, allora, sarebbe viaggiare indietro, da capo, con la testa di adesso, con tutto in memoria - l'ho scritto ancora, buon dio, l'ho scritto nuovamente quando avevo giurato di no! - e con l'aspetto ingannevole che avevo e che avrei. Rivivere tutto, ogni istante, ogni versione di greco, ogni 10 gennaio, ogni tonsillite, ogni mattina gelata, tutte le ottomilasettecentosessanta ore di naja, il primo numero di Dylan Dog, una per una le costruzioni crollate e quelle miracolosamente rimaste in piedi. Rivivere tutto vivendolo sul serio, avendolo in memoria e sapendo di averlo vissuto male, di striscio, e quindi onorarlo meglio, e di più. I miei gesti sarebbero sacri e leggeri, come si conviene. I miei amici più tollerati, le impazienze controllate, le parole che ho ingoiato davanti a Pietro stavolta pronunciate - con rispetto, si capisce, ma anche con fermezza. Stupore e nostalgia, ragazzi. Chissà se quando muoio potrò tornare a comprare i vestiti con Mara, Gina e Rita come quarant'anni fa, e poi rifare tutto quello che ho fatto. Tutto, senza saltare un giorno. Dio, se hai un paradiso su misura per ognuno, io mi prenoto per quello. Intanto mi alleno a scriverne, e vorrei tanto impalcarci su questa suggestione una storia nuova. Poi mi diranno che è contorta, poco leggibile, poco di moda. Ma che ne sanno gli editor della narrativa innocua di quel garbuglio che uno ha dentro nell'anima.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post