Casa mia è solo la casa in cui sono nato, ma giacché sono nato in tre o quattro case diverse, casa mia sono così tante che a ricordarle diventano una soltanto, gigante, che da via della Pigna sconfina in via Cardoli, trapassando - Fraporta - Mezule come una spada, e da via Cardoli s'allunga sulla Flaminia Ternana, e da lì, da quei viali quasi romani di alberi che perdono i capelli, scende tuffandosi in via della Doga, davanti al passaggio a livello, a due isolati dal magazzino dei tabacchi che non c'è più, e che quando c'era odorava di trinciato e saponette Palmolive. Sono venuto alla luce un poco alla volta, scoprendo il mondo dentro a quelle quattro case di parenti innamorati e alle loro trenta stanze, camminando gnomo per corridoi e disimpegni bui, affacciandomi da finestre che davano su panorami ogni quattro volte differenti: la sartoria dall'odore stantio di Vania, il monumento ai caduti, il chiosco di Battistelli e la carrozzeria di Falasco - davanti alle cui lamiere a settembre impalcavano i banchi della frutta secca per la processione della vergine. In ognuna di quelle case dove ho sparpagliato l'infanzia, lasciando, senza accorgermene un po' di voglia tardiva di ritorno, ho aspettato l'Almanacco del giorno dopo e la sua sigla da incantatore di serpenti - questa: https://www.youtube.com/watch?v= - e ho cenato con i piedi che non arrivavano al pavimento, e se guardo adesso le foto di quella stagione non trovo che gente defunta, e io lì a far da testimone ai superstiti. Io c'ero e dio non saprei, ma doveva starci pure lui, ospite notturno e pudico, a far combriccola, e numero, a promettere senza mantenere, da mercante qual è. Là dentro ho cominciato a leggere come si legge a cinque anni: balbettando e stancandomi presto, cercando tra le pagine le figure più spaventose, per non aver la tentazione di chiudere il libro. C'erano certe illustrazioni dipinte di carovane sotto la grande muraglia, lampade che imprigionarono geni, zebre d'Africa, e un grande magnifico disegno di Abebe Bikila che mi corteggiò per anni a diventar maratoneta. La sua storia, il colore della sua pelle, avrei voluto fossero i miei, così da avere un'avventura possente da raccontare. Posavo il libro solo per affacciarmi al viale di foglie di rame, alle macchine lente e al futuro, che stava dietro all'ultima casa, ci avrei scommesso, tra le guglie del Minareto rifatto da Edoardo Martinori - narnese con la passione per l'oriente - e il lago artificiale. Da quelle trincee l'avvenire sembrava una passeggiata, invece è stato un casino, un luna park. Tanto che alla fine, con tutti quei fenomeni che c'erano dentro nei libri, per non essere da meno e provare a infilarmici, romanzo che non sono altro, mi sono messo a scriverne anch'io, mascherandomi da Edoardo, Mirka, Laurì e da tutti quegli altri matti sparati che ho messo al mondo .
Casa mia è solo la casa in cui sono nato, ma giacché sono nato in tre o quattro case diverse, casa mia sono così tante che a ricordarle diventano una soltanto, gigante, che da via della Pigna sconfina in via Cardoli, trapassando - Fraporta - Mezule come una spada, e da via Cardoli s'allunga sulla Flaminia Ternana, e da lì, da quei viali quasi romani di alberi che perdono i capelli, scende tuffandosi in via della Doga, davanti al passaggio a livello, a due isolati dal magazzino dei tabacchi che non c'è più, e che quando c'era odorava di trinciato e saponette Palmolive. Sono venuto alla luce un poco alla volta, scoprendo il mondo dentro a quelle quattro case di parenti innamorati e alle loro trenta stanze, camminando gnomo per corridoi e disimpegni bui, affacciandomi da finestre che davano su panorami ogni quattro volte differenti: la sartoria dall'odore stantio di Vania, il monumento ai caduti, il chiosco di Battistelli e la carrozzeria di Falasco - davanti alle cui lamiere a settembre impalcavano i banchi della frutta secca per la processione della vergine. In ognuna di quelle case dove ho sparpagliato l'infanzia, lasciando, senza accorgermene un po' di voglia tardiva di ritorno, ho aspettato l'Almanacco del giorno dopo e la sua sigla da incantatore di serpenti - questa: https://www.youtube.com/watch?v= - e ho cenato con i piedi che non arrivavano al pavimento, e se guardo adesso le foto di quella stagione non trovo che gente defunta, e io lì a far da testimone ai superstiti. Io c'ero e dio non saprei, ma doveva starci pure lui, ospite notturno e pudico, a far combriccola, e numero, a promettere senza mantenere, da mercante qual è. Là dentro ho cominciato a leggere come si legge a cinque anni: balbettando e stancandomi presto, cercando tra le pagine le figure più spaventose, per non aver la tentazione di chiudere il libro. C'erano certe illustrazioni dipinte di carovane sotto la grande muraglia, lampade che imprigionarono geni, zebre d'Africa, e un grande magnifico disegno di Abebe Bikila che mi corteggiò per anni a diventar maratoneta. La sua storia, il colore della sua pelle, avrei voluto fossero i miei, così da avere un'avventura possente da raccontare. Posavo il libro solo per affacciarmi al viale di foglie di rame, alle macchine lente e al futuro, che stava dietro all'ultima casa, ci avrei scommesso, tra le guglie del Minareto rifatto da Edoardo Martinori - narnese con la passione per l'oriente - e il lago artificiale. Da quelle trincee l'avvenire sembrava una passeggiata, invece è stato un casino, un luna park. Tanto che alla fine, con tutti quei fenomeni che c'erano dentro nei libri, per non essere da meno e provare a infilarmici, romanzo che non sono altro, mi sono messo a scriverne anch'io, mascherandomi da Edoardo, Mirka, Laurì e da tutti quegli altri matti sparati che ho messo al mondo .
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