Tutte le volte che ho la tentazione di salire lassù, scopro che quella tentazione è paradossale, perché non solo è innocente ma al contrario delle altre tentazioni, alleggerisce, anziché appesantire. Il problema è convincere lei ad accompagnarmi - la mia amante, dico - perché sa che cammin facendo mi libererò della sua presenza uno strato alla volta, come vestirsi a cipolla, sentir caldo, e buttare dal finestrino maglie e calzoni pesanti. Non le piace farsi lasciare a terra - come darle torto? - ma è una specie di rito che ha senso solo se lei mi asseconda. È vero: con quegli alberi e il convento, la messa prefestiva delle 18, il tau per cui lasciare un'offerta e il panorama silenzioso, lei non ha nulla a che fare: è un ingombro, un peso; è fatua, meschina. Protesta, sbraita, mi ama - giura - e non mi lascerà mai, ma già al primo tornante, tra Sant'Urbano e Altrocanto, impallidisce, è spaventata, uggiola, sa dove stiamo andando e si pente d'avermi detto sì, ma solo non mi lascia neanche un minuto, teme che possa scoprire che saprei vivere bene anche senza averla attorno. In città, tra le invenzioni umane che rallentano la felicità con l'illusione di accelerarla, è nel suo elemento. Mi promette ricompense, pollici versi, estasi di lettori, e una piccola barca di quattrini. Di carta, magari. Nel mondo degli uomini tutto cospira per la sua affermazione, tutto le dà ragione, le va l'acqua per l'orto. A ogni curva di muschio, invece, qui, a ogni parapetto arrugginito che delimita un fosso d'erba, s'adombra, e muore un poco. Finché io sono in cima e lei, col fiato corto, mi aspetta al parcheggio. Mi chiede penosa di non tardare. Faccio quei pochi metri leggero, come un aliante. Sosto convinto che lì è l'unico bene possibile, l'unica verità. Avessero un saio in più, potrei approfittarne. E imparerei i salmi, e a cantare stonato. Ma poi mi avverte - al cellulare, e se non è lei è una voce di cui si è pur tuttavia impadronita, un appuntamento che ha fissato di persona. E io ridiscendo, mentre fa notte e attorno esplodono fucilate di cacciatori. Torno da lei cedendo ancora una volta al suo richiamo. E la trovo tutta rifiorita, maligna e soddisfatta.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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