Settembre è un posto e Siracusa un tempo, e il vento greco che soffia a Ortigia un alfabeto primordiale di genti solo in apparenza estinte, lo stesso delle volte che davanti alla cattedra provavo a coniugare l'aoristo senza scendere sotto al sei, che provavo a recitarlo senza esserne degno. Certi scherzi dei sensi, certe sinestesie acrobatiche, si fanno largo tra quel che avrei voluto scrivere oggi - che non ricordo più cosa fosse, - e si impossessano di tutto lo schermo. Arrivano così a tradimento i voli autunnali in Sicilia, il primo con te che stavi morendo, il secondo al laccio di un'euforia che avrebbe prodotto una gran mutazione - come un libro leggero che si ispessisce di significato. Ecco che mi chiamano scrittore, ecco che mi viaggiano fino a Palermo, fino a Ragusa e Scicli, ecco che lambendo l'Etna me ne intenerisco, per il ricordo della scalata del '78, ecco che al ritorno, nel buio del sedile di dietro, tu mi dici Voglio tornare come ero. La mia prima tournée, la chiamavo, soffiando dentro all'evento più fama di quanto meritasse. Ma era il vento dell'isola, che accarezza le ringhiere sulle balaustre a ubriacarmi - specie di notte, coi pescespada al largo, che vedi inarcarsi e sulle pinne caudali rimbalzare la luce lunare, - a incoraggiarmi per imitazione a quella vanagloria. Casa Dodò era il quartier generale, la prima e la seconda volta. Alle cinque di mattina saliva dal vicolo, tra le fessure delle persiane e mischiato all'alba, l'odore della pastafrolla, gonfia di crema al pistacchio; scesi una domenica a farne incetta e tornai con un vassoio pencolante, e ne facemmo strage. Poi mi telefonò un'amica, e tu ti rabbuiasti, pensando a chissà quali trame: non la vedevo da anni, aveva solo piacere di farsi dedicare il libro. Di gente ce n'era tanta, a sentire quella storia di un altro vento strano, spento all'improvviso, di tre amici in apnea e di un mondo che si andava seccando, alla maniera della nostra vita. Se la rileggo ora - in effetti - ci trovo più di un presagio, ma mentre nasceva era solo un'avventura sciocca, un vanto da mostrare a Pietro, un modo per dirgli Vedi? Qualcosa son capace, e un rifugio antiaereo tra i bombardamenti di chemio. Da allora non ho più smesso di scrivere, ci ho preso gusto: è diventato un piccolo mestiere. Mi dà di che vivere solo se mi accontento di quello che ho, è chiaro, e abbevero desideri ragionevoli. Però gli amici che mi lusingano di un'attenzione, che pesano le mie parole e al cambio mi concedono altre parole come sassolini d'oro, son più numerosi ogni giorno. E a un narratore di piccole memorie trasfigurate, tutta quella generosità basta e avanza a saziargli l'anima.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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