Ho corteggiato per così lunghi anni la perfezione, che solo di recente mi sono accorto che non esiste. Credevo fosse un'isola dove poter sbarcare dopo aver fatto il giro del mondo, e lì metter su casa, e una volta iniettato cemento armato nelle fondamenta nulla l'avrebbe scossa. Invece. Invece non solo non è mai nata ma il suo contrario - che ho sempre considerato una mutilazione del talento - è probabilmente un valore. Da che scrivo - con umiltà, cento difetti e un pregio - mi sono ogni volta rammaricato di non aver centrato bene una storia, di aver usato una parola al posto di un'altra - naturalmente migliore ma venuta dopo, a libro edito, e quindi troppo tardi, - di aver creato confusione attribuendo a un personaggio gesti e umori riservati due pagine prima a un altro. Maturando - o come direbbe malignamente mia figlia invecchiando - mi persuado che l'imperfezione è il sistema migliore per raccontare il mondo imperfetto che abbiamo. È una questione di sintonia, insomma. L'amore è imperfetto; il mestiere che ho inventato, i ragionamenti che faccio, lo sono. Mi vengono le palpitazioni per una squadra di calcio che ne è la quintessenza, dell'imperfezione. E poi, quando insegnavo, impalcavo avventurose lezioni imperfette, poeti raccontati a braccio, scrittori romanzati perché arrivassero - le loro vite e la loro sacrilega sfida a dio - più esemplari, accendendo un cerino di curiosità tra i banchi. Qualche volta è successo. Allo stesso modo, la mia vita si è insaporita di giorni imperfetti, che hanno più carattere di quelli dove nulla va storto. Senza conflitto, senza competizione, e in assenza di contrasti e rallentamenti non c'è ingegno, non c'è sfida, niente storytelling. E non c'è gusto a vivere. Così è la scrittura, forma d'arte povera come quella nata al mio stesso millesimo, a Genova, battezzata da Germano Celant, fatta di stracci e cartapesta, e madie riverniciate, che solo usando materiali di scarto si accorge del suo margine di crescita, e sperimenta, e assembla e canta parole restaurate che alla fine hanno pure un senso, in fila sistemate tutte assieme.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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