E allora tutti quei secchielli sepolti ad agosto, le fate di pasta modellata nei negozi bui, le plafoniere cieche, le scale senza chi le discende, gli avvisi antincendio senza lettori, le macchine del caffè che non sbuffano, i depliant di Gardaland, i tavoli sparecchiati, esistono o non esistono? D'inverno, dico, che gli alberghi chiudono e il mare smonta il teatro e va a dormire. Lo senti - se ci torni a tradimento verso dicembre - che russa e sospira, e vedi che sciacqua la spiaggia con la coda, come fa chi nel sonno scalcia lenzuoli. È un mostro in letargo, imponente, briga per la stagione bella ai nostri danni - lì tra la sabbia e le case bianche colla scritta Affittasi nei mesi estivi. Non c'è nessuno a sfidarlo e lui aspetta, coi suoi abissi omerici, le allegorie che inventiamo per recintarlo nella ragione, gli spaventi di fantasia, tipo immaginare leviatani inarcare il dorso se solo nuotiamo fuori delle acque sicure. Così è questo il nostro errore: la pretesa di gestirlo come le altre cose della vita, quelle che hanno una misura, una dimensione, una misericordia. Invece lui è oltre ogni speranza, ogni calcolo, è il presagio di una malattia, è tutto quello che di orrendo precipita. L'idea che esiste un limite - un'altra sponda - ma non possiamo vederlo ci impazzisce, e minimizziamo, e abbiamo aperto tanti parchi gioco di fronte alla sua bocca, per crederlo una vacanza. Il mare è la notte dell'umanità, la sua rovina, l'invisibile, l'indecifrabile, la sua preistoria, il terrore. Hanno scritto storie in cui lui era sotto e uomini di coraggio sopra, e talora capovolgendo le parti, in tifoni e burrasche, ha inghiottito tutti, e nella sua pancia stanno infiniti cimiteri. Hanno scritto credendo - quei narratori - che fosse un attore come gli altri. Ma lui è il mistero, e il mistero non si dice: si prega. Per cui: lo scampo degli oggetti, questo cerco. Io spero davvero che vivano pur quando non li uso, non li vedo. D'inverno, non svaniscano. Secchielli, fate, plafoniere, scale. Tutta la stiva degli alberghi, la santabarbara dei ristoranti, l'accoglienza delle riviere. Avvisi antincendio, caffettiere, depliant, tavoli sgombri. Sono le povere certezze a cui mi aggrappo davanti a un'idea così insopportabilmente assoluta.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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