Ho scoperto una crepa nel progetto di dio, volevo essere il primo a dirvelo. È successo stanotte, che abbaiavano i cani sotto l'albero d'uva, e l'istrice si avvicinava alle case, e l'insonnia mi ha fatto visita alle tre, mi ha affacciato alla finestra, e c'era l'istrice, e c'erano i cani. Ha acceso una luce, l'universo, nell'incavo tra due colline - dieci chilometri in linea d'aria - e ho vista colare una cosa densa come il miele dal cucchiaio alla terrina, filamentosa, e poi spegnersi all'orizzonte, barbagliando. Dio stava orinando, io credo; si sveglia a quell'ora e la sua prostata millenaria urla, e si svuota sul mondo. Così ho avuto la prova che siamo la sua ritirata, un destino come un altro, se solo si fosse premurato di dircelo. Lì ho pensato alla vita e alla morte - niente di meno - a quanto sono dissimili, una gonfia, piena di tutto, l'altra vuota delle stesse cose. E gli avrei chiesto, se si fosse trattenuto ancora un po' al gabinetto, perché non ha pensato di bilanciarle meglio, dare alla vita un po' di morte, farci morire un paio di volte, rinascere e poi morire per sempre, a prender l'abitudine; e dare alla morte un po' di vita, non il buio infinito che dovrebbe essere, non la sordità che è. Un discorso di percentuali, gli avrei fatto - per quanto io sia negato, al gioco dei numeri. Non certo metà e metà, che sarebbe pretendere troppo. Dieci e novanta, questo mi è balenato in testa. Ritrovare nella morte il dieci per cento delle cose che hanno dato un senso alla vita - balli di fine anno, drive-in a Milwaukee, ellepì di Venditti, baci senza erezione, strisce di Snoopy, sere stupite di felicità. E nemmeno avrei preteso di sceglierle, quelle cose, che pescasse pure lui nel sacco di tutto quello che ha osato intenerirmi, e me le gettasse come le monete a un suonatore di fisarmonica davanti a un ristorante. E che però poi restassero mie per sempre, quelle sconcezze - col sollievo che ciò che ho perso è comunque tra loro, in miniatura, spezzettato, racimolato - e ha avuto un senso scriverne così tanto. Io so che mi avrebbe ascoltato. Poi avrebbe fatto di testa sua, come sempre, come quando decidiamo di amare qualcuno e lui ce lo stacca via, tipo la pellicola dalle figurine. Ma almeno gli avrei fatto capire quanta crudeltà c'è a arredarci una vita tanto magnifica e poi toglierci tutto, senza pietà, fino all'ultima suppellettile.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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