Ho aspettato minuti che sembravano giorni, anni che adesso sembrano attimi, e se volessi insistere nel luogo comune ore che somigliavano a stagioni. Aspettare: che verbo sorprendente. Lo carichi nel tuo alfabeto e lui racconta con lo stesso piglio quando stavi sulle spine per un emocromo e le volte che lei ti disordinava il tempo, rompendolo e riaggiustandolo a suo vezzo, e a te toccavano speranza, godimento e tortura. Così fan le donne, che impastano i tuoi desideri nei loro confronti con le scaglie di lucertola, l'umore di una naiade - perché loro sono maghe - e ne fanno essenze da bruciare, e colonizzano la tua vita, e danno il ritmo al sesso, che come tutti sanno è amore + gioco. Funziona così: se tu ne hai voglia ma loro no puoi anche morire; se ne han voglia loro e tu mica tanta per via che in tv c'è Starsky e Hutch ti tocca darti da fare. Matriarcato del talamo: dio le benedica. Non vorrei divagare, però, e allora - dicevo: - aspettare. Ho questa idea per cui se mi dessero dieci cent per ogni ora che ho aspettato qualcosa che accadesse, potrei farmi la macchina nuova. O qualcosa che arrivasse, anche, una festa, il mestiere giusto, la liberazione da un cruccio. E qualcuna, naturalmente: un'amica con cui prendere un caffè, una signorina adorata, una collega, un'allieva, una moglie scostumata. Che bello e che tormento che è, aspettare. Aspettavo le quattro e mezza per scappare dalla caserma di Viterbo e rifare al contrario della mattina quei 48 chilometri fino a casa e, cavolo, pareva che la lancetta dei minuti la trattenesse un titano con tutta la forza: più la guardavi più era immobile. Tranne il giorno in cui la segretaria si fermò in ufficio più del lecito, e rimanemmo soli. Lei e io. Soli in tutta la base, che era luglio e scappavano in massa a Tarquinia, in barba alle consegne. Oppure ho aspettato così tanto i miei ricordi che credevo fossero partiti via, emigrati, o che loro si fossero dimenticati di me - cosa buffa, che sarebbe un capovolgimento di senso. Così devono essersi sentiti, messi d'accordo sul da farsi come i ragazzi diventati adulti di It e adesso non passa giorno che non ne arrivi qualcuno di nuovo, talora due assieme, e tutti hanno la stessa bimbesca pretesa di esser raccontati. E io, come fan le donne con gli uomini, stabilisco tempi, modi, scandalo e parole della loro esistenza.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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