Io di quella città ricordo il dolore lancinante, a otto anni, per un guaio che ho poi scoperto si chiama parafimosi, il sangue sulla lettiga, l'anestesia che non mi fecero, l'alcool sulla ferita viva, il bisturi che rifletté la faccia di Rita dietro il carnefice, e il sospetto di essere stato squartato. Invece mi ricucì, quel macellaio, e a gambe larghe sparai perfino, quello stesso pomeriggio, contro certi barattoli al Luna Park, beccandone mezzo. Ne ho visti di posti incistati a strafottenza sulla pelle del mondo, ma lei li batte tutti. Mi sfiancava da ragazzino e mi sfianca da vecchio, a camminarla e a pensare di andarci. Per questo la frequento solo se devo, e a piccole dosi. Pure l'ho amata quando mi sembrò smisurata prigione, asfissia, con tutti quei caseggiati enormi eretti a palizzata, i murales che rifanno Pazienza all'avvicinarsi delle stazioni, il dermatologo cercato per un pomeriggio intero in un intrico di quartieri, i viaggi con Pietro, in curva nord o da Gastone, che s'era preso un attico parigino per ricostruire laggiù un pezzo di romanticheria. E Lettere Moderne, da cui tornavo in treno impolverato e sporco e che fui tentato di mollare finché non intuii che era una via necessaria - sentimento tardivo e tenace. Per merito di Edith Pasztor ho capito, qui, l'Umbria fuori dall'Umbria, le nostre radici, Francesco e il senso delle lucertole nei sai dei compagni, Tommaso da Celano che lo racconta ammirato come si ammira chi non potremo essere mai. Sulla piazza dove bruciarono l'eretico ho incontrato Luigi Magni che passeggiava scojonato, la voce da rana; davanti a una bancarella di stracci Renato Zero, magrissimo e dipinto di fard; sotto al cavallo di via Mazzini Giancarlo Magalli, e per poco non l'ho preso sotto, e lui a tutta voce me mannò a morì ammazzato. E poi a casa, da provinciale, aspirante civis, l'ho abbellita di sogno quella impudente, sperando che i suoi abitanti fossero tutti come Petrolini, Rascel (piemontese per un giorno, per tournée paterna), Montesano, Proietti, con la loro cojonella colta, il cinismo bono come er pane. Invece ce stanno anche antri tipi d'omo: i briganti della Magliana, i disgraziati che spararono a Marta Russo, quelli che rubarono la Orlandi. Ce so' du' città in una, paradiso e inferno, Belli, Trilussa, Rugantino, e i mitra, le faide, l'eroina, i traffici immondi. Magari ogni città ha due anime, una vale da contrappasso all'altra. Ma qui se ne passano; qui tutto è manicheo, recintato, così che è facile sceglie da che parte stare. Da quella der papa o da quella der demonio. Scelgo, allora. E scelgo - se potessi ripetere mille volte una felicità - la scena ultima di Acqua e sapone, i tre amici che ballano in mezzo a un campo sulla canzone degli Stadio. Vorrei essere pe' sempre uno dei tre, e alla fine - dopo che anche per sempre è morto - rincasa' ar tramonto, eterno pur'io come er posto in cui sto.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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