Ah che boato, che felicità, quando leggevo - non ricordo di aver mai fatto altro con tanto accanimento, in gioventù - e scoppiava il temporale. D'agosto, dico, che la grandine crinava lo spessore di canicola come un vetro preso a sassate, e Rita Corri! Chiudi le finestre! urlava, e io allegro, masticando parolacce, eseguivo. Lo scrivo così, scapicollando ricordi, perché allo stesso modo, scapicollandomi per casa, per le stanze, fradiciandomi, sprangavo tutto, e poi rifiatavo. Hai staccato l'antenna della tv? no, quella no, l'avevo dimenticata. Mai però che un fulmine la bruciasse, eppure era obbligatorio scollegare i cavi, ogni volta. Andava via la luce, poi tornava, e quando tornava e il finimondo sembrava placato mi veniva l'estro di uscire. Narni aveva sempre quell'aria da aristocratica in bolletta che sotto la pioggia diventava romanticismo. Una città del nord Europa in miniatura, sembrava. Nel 1982 c'era un negozio di dischi in fondo a Piazza dei Priori. Di quell'anno ricordo quel giorno di bufera, quello in cui nacque mia sorella e un terzo, miracoloso, in cui vincemmo i Mondiali. E basta. La selezione la fa la mia testa. Quel giorno sconquassato, comunque, a sera si ricompose in un quadro di luce torbida che voleva come cercare una via d'uscita su per via del Campanile, sbaffando a ogni vicolo frescura - come un pastello dato fuori dei contorni - e già un avamposto d'autunno. Da settimane avevo in animo di comprare quel long playing ma da settimane non pioveva. E ci voleva, la pioggia. Il negozio era una specia di cabina telefonica: in due, se si era maschio e femmina, si rischiava di fare un figlio. In tre, il terzo aspettava fuori. La ragazza era più grande di me e trafficava in cassette pirata, per arrotondare. Pagai seimilacinquecento lire e tornai a casa, tra le pozzanghere, con l'album nuovo di Venditti. Le canzoni suonavano ancora d'autore, benché il processo di mortificazione fosse già cominciato. Meno pianoforte, più scorciatoie melodiche. Però i testi erano ancora liberi, irridenti. Come la terza canzone, quando al secondo inciso racconta le priorità della vita. Io che quel verbo non l'avevo ancora praticato, me ne innamorai. Della canzone e della frase. E mi parve di crescere, ascoltandola, tutto in una volta, perché bastava averci confidenza, con un linguaggio del genere, per illudersi di saperne il gesto originale; e la riascoltavo ogni volta col volume al minimo, come un segreto che non vuoi qualcuno origli. Misi via il disco. Non insieme agli altri, no. Dietro certi libri, dietro Pasolini. Mi convinsi che quello fosse il suo posto esatto. E a un amico che di lì a un giorno, per farselo prestare, mi chiese se il Venditti nuovo l'avessi comprato risposi Certo che no, ormai fa canzoni tutte uguali.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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